Se continuano a sovvenzionare le fonti fossili e a tassare pochissimo il carbone, i Paesi Ue perderanno un’occasione per fare passi avanti nel raggiungimento degli obiettivi climatici dell’Unione. A partire dal taglio delle emissioni del 55% entro il 2030. Basti dire che gli aiuti ai combustibili inquinanti ammontano ancora ad oltre 55 miliardi di euro all’anno e sono rimasti quasi costanti negli ultimi dieci anni, nonostante gli impegni ad eliminarli gradualmente. In 15 Stati membri – compresa la Francia – valgono più di quelli riservati alle energie rinnovabili. Le aliquote fiscali sui diversi prodotti energetici, poi, non tengono conto delle emissioni di carbonio e dunque del loro costo ambientale. A mettere in fila i numeri è la Corte dei Conti europea, in un documento che analizza il periodo compreso tra il 2008 e il luglio 2021. E arriva a due giorni dal probabile via libera, da parte della Commissione, a un regolamento che include gas e nucleare nella tassonomia.
“Con questa analisi, la Corte intende contribuire al dibattito sui prezzi dell’energia e sui cambiamenti climatici, in particolare in vista dell’imminente discussione della proposta di revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia (avanzata dalla Commissione nell’ambito del pacchetto Fit for 55, ndr)”, ha spiegato l’economista rumeno Viorel Ştefan, responsabile dell’analisi. “La sfida principale è rafforzare il nesso tra provvedimenti normativi e misure finanziarie, trovando la giusta combinazione”. Tradotto: non basta aggiornare gli obiettivi di decarbonizzazione se poi non si prendono provvedimenti che incentivino economicamente produttori e consumatori a fare le scelte migliori per raggiungerli. Pur con la necessaria attenzione agli effetti sociali, perché in alcuni Paesi a reddito basso come Repubblica Ceca e Slovacchia le famiglie più povere spendono per l’energia oltre il 20% del reddito e i governi non possono certo pensare di imporre nuove tasse o ridurre i sussidi che rendono più convenienti le fonti inquinanti senza adottare misure redistributive. Pena il rischio di rivolte come quella dei Gilet gialli in Francia, ricorda la Corte.
Di certo però occorre cambiare rotta, perché oggi tra obiettivi e realtà c’è una distanza siderale. Partiamo dalle tasse: l’Ocse ha evidenziato che i Paesi con le imposte sull’energia più elevate tendono ad avere economie a minore intensità energetica. Ma le aliquote fiscali medie, che oscillano tra 1,7 euro/Mwh per il coke di petrolio e 107,8 per la biobenzina, non riflettono il differente potere inquinante: “Alcuni combustibili fossili sono soggetti a imposte notevolmente inferiori rispetto all’elettricità (che potrebbe essere prodotta con fonti a bassa emissione di carbonio)”, spiega l’analisi. Quanto al prezzo per le emissioni di carbonio, il sistema Ets dell’Unione europea che sulla carta impone agli inquinatori di pagare quote corrispondenti alla Co2 che rilasciano in atmosfera è in realtà reso meno efficace dal fatto che “vengono assegnate gratuitamente quote alle industrie ad alta intensità energetica (quali il settore della produzione di acciaio e cemento) e per l’ammodernamento del settore della produzione di energia elettrica in alcuni Stati membri”. Un “regalo” giustificato con il rischio di delocalizzazione delle produzioni in Paesi più permessivi, rischio tuttavia non provato. Di conseguenza la Corte già nel 2020 ha chiesto di assegnare le quote gratuite in modo più mirato. In aggiunta, alcuni Paesi hanno introdotto tasse esplicite sul carbonio (da ultima la Germania nel 2021) che si applicano anche a settori non coperti dall’Ets.
Il tasto più dolente è però quello che riguarda le sovvenzioni all’energia, sotto forma di agevolazioni fiscali, trasferimenti diretti o sostegno al reddito e ai prezzi. “Le sovvenzioni all’energia sono aumentate nel tempo, trainate da un incremento delle sovvenzioni destinate alle energie rinnovabili che sono cresciute di 3,9 volte nel periodo compreso tra il 2008 e il 2019”, annota la Corte, cosa che ha fatto salire la percentuale di rinnovabili nei consumi finali Ue, ma uno studio recente condotto dalla Commissione ha mostrato che nel frattempo le sovvenzioni per i combustibili fossili “sono rimaste relativamente stabili” a circa 55-58 miliardi di euro all’anno. Tutti i settori ricevono sovvenzioni per i combustibili fossili. In termini assoluti, “l’industria energetica riceve la quota maggiore sia di sovvenzioni all’energia sia di sovvenzioni per i combustibili fossili. Le sovvenzioni per i combustibili fossili rappresentano la maggior parte delle sovvenzioni destinate a industria, trasporti e agricoltura“.
Ora gli Stati membri sono tenuti a inserire nei Piani nazionali su energia e clima gli obiettivi nazionali per la graduale eliminazione delle sovvenzioni, ma la Commissione non ha ancora approvato l’atto di esecuzione con le disposizioni su come rendicontarli. E 15 Stati, in testa Finlandia, Irlanda e Cipro, continuano a dare più soldi alle fonti fossili che alle rinnovabili. Il rapporto tra questi esborsi e l’aumento della quota di energia da fonti verdi è inversamente proporzionale, come da attese. Nei sette Stati che fino al 2019 erano più lontani dagli obiettivi il rapporto tra sovvenzioni a fonti green e pil è sotto la media Ue, non a caso.
Su molti di questi aspetti, va detto, la Commissione ha già proposto soluzioni nell’ambito del Pacchetto Fit for 55, che comprende aliquote fiscali basate sul contenuto energetico, una proposta di modifica dell’Ets, un sistema di scambio di quote anche per il trasporto e l’immobiliare, un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere che attribuirebbe un prezzo alle emissioni di carbonio dovuto all’importazione di alcune merci e un Fondo sociale per il clima. Ma ora su quelle proposte si attende la posizione del Consiglio. E bisognerà trovare il consenso tra i 27, visto che in Ue per le decisioni in materia fiscale serve l’unanimità. La politica fiscale comunque non basta: “La sfida consiste nell’individuare la giusta combinazione tra misure di carattere normativo e quelle di natura finanziaria”.