La grottesca partita a “ciapa no” (la variante del tresette a perdere: vince chi riesce a incassare meno mani) giocata questi sei giorni di ordinaria follia attorno alla suprema carica dello Stato, lascia il gusto di sentimenti contrastanti. A parte la tenerezza che oggi suscita l’aria da cane bastonato del solitamente detestabile Matteo Salvini, dopo aver preteso di svolgere un ruolo costituente da Padre della Patria fuori dalla sua portata, lui che sa recitare solo la parte del Rodomonte da campagna elettorale; prevale la profonda delusione per come è stata silurata non la candidatura di una donna, ma di “quella” donna. Oltre all’orrore per le miserie portate alla luce dal fatto specifico e generale, picco abissale nel definitivo sprofondamento di un ceto politico al di sotto di qualunque livello di decenza.

Francamente non conosco Elisabetta Belloni e trovavo in qualche misura disturbante il bollino “servizi segreti” che la segna da alcuni mesi, dopo aver ricoperto ben altre cariche al servizio dello Stato, registrate da un curriculum di tutto rispetto. Comunque – grazie alle informazioni disponibili – risultava chiaro “oltre ogni ragionevole dubbio” che con la Dottoressa Belloni avevamo finalmente trovato la candidatura alla Presidenza della Repubblica di una donna che non aveva niente a che spartire con le caricature di maschietto (opportunista, carrierista, affarista) che sino a quel momento ci erano state propinate come incarnazione della svolta al femminile. La Casellati merletti, falpalà e voli a spese del contribuente, la Cartabia mente giuridica da regime di matrice Comunione e Liberazione.

Dunque la figura di una donna eccellente, vittima di femminicidio politico virtuale per la stessa ragione inconfessabile con cui dodici mesi fa era stato killerato il suo unico, vero, sponsor privo di secondi fini: Giuseppe Conte, accomunato alla Belloni dal marchio d’infamia di non appartenere al Garden Club, il circolo riservato dove i membri della corporazione del potere partitico si scambiano favori e si puntellano reciprocamente. I presidiatori dei privilegi castali della politica politicante che sono balzati su come un sol uomo all’annuncio intollerabile che nel loro giardinetto poteva arrivare un’aliena a disturbare le manovre. Scatenando una reazione identica seppure diversa nelle modalità, a seconda dei rispettivi profili caratteriali.

Il pretino Enrico Letta praticando la doppia verità ipocrita del qui lo dico e qui lo nego, per cui si finge l’apertura inserendo nella propria rosa papabili il corpo estraneo (a dimostrazione di democraticità, politicamente corretto, femminismo di maniera da quote rosa) per poi rimangiarsi la mossa tattica quando questa potrebbe dimostrarsi foriera di esiti positivi. Altri hanno preferito boicottare nell’ombra e senza lasciare le proprie impronte digitali, da bravi usufruttuari della rendita di posizione ministeriale. Gente ingiustificatamente pretenziosa come i Dario Franceschini o gli Andrea Orlando, la cui unica ragione per cui possono essere presi in considerazione si circoscrive alla poltrona che occupano (e probabilmente sono stati loro a ispirare la celebre massima di Michel de Montaigne: “anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo”).

Fermo restando che la massima evidenza delle inconfessabili motivazioni di fondo contrarie al successo della candidatura irrituale ci è stata fornita dal massimo campione della spudoratezza insita nel professionismo politico: il Matteo Renzi d’Arabia, che la sera di venerdì si precipitava in ogni talk show per denunciare con aria compunta e sguardo severo l’affacciarsi sulla scena di una 007 in gonnella (che in realtà si occupa di informazione e sicurezza). A suo dire una sgrammaticatura istituzionale per la sua sensibilità di senatore della Repubblica a libro paga dei tagliagole di Riad.

Mentre esprimeva analogo sdegno – questa volta con riferimento al decoro istituzionale, lui passato alla storia per aver annunciato una procedura di impeachment contro il Presidente della Repubblica – il socio junior del solito Garden Club Luigi Di Maio, il vero miracolato dell’epopea grillina, cui l’effetto poltrona notabilizzante (garantita dalla permanenza di Draghi a Palazzo Chigi) ha fatto emergere tratti salienti del genius loci natio: il doroteismo partenopeo della famiglia Gava con propaggini campane dell’andreottismo alla Cirino Pomicino.

Davvero uno spettacolo miserevole di gente aggrappata alle proprie immunità e franchigie, che tuttavia potrebbe minacciarne i giorni sereni di maggiorenti nell’Ancien Règime della Seconda Repubblica, avendone portato alla luce tutta la loro vanitosa inettitudine. E – come diceva Tocqueville – “via via che il potere desiste dai suoi compiti, i suoi privilegi finiscono per l’apparire ingiustificati e incomprensibili”. Né sembrano protezioni sufficienti di tali vantaggi stridenti della corporazione le figure di garanzia del fu Migliore marginalizzato Mario Draghi e del tentennante presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nubi tempestose si addensano.

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