di Cristian Giaracuni
Se Omero vivesse tra noi farebbe il quirinalista. E oggi starebbe cantando le gesta del prode e indomito Sergio Mattarella.
Come Omero anche i cosiddetti giornalisti dei giorni nostri creano miti e costruiscono leggende. È quello che nei sette anni appena trascorsi hanno fatto con l’ex e futuro presidente della Repubblica, intorno al quale si è condensata un’aurea di infallibilità inscalfibile. Come e più del Papa, Mattarella non sbaglia mai ed ogni sua mossa è l’inequivocabile tocco taumaturgico che scongiura gli esiti nefasti delle bizze dei partiti.
Oggi, con la rielezione, i redivivi Omero sparsi per la penisola hanno vergato un altro capitolo della Mattarelleide salutando la rielezione del novello Eracle con strepiti di giubilo e sospiri di sollievo per lo scampato pericolo e il ritorno dell’unico vero patriota che immola se stesso sull’altare della patria ferita dall’ennesimo fallimento della politica. Tv e social urlano in coro un perentorio “Grazie Presidente!”. Mentre loro esultano per il lieto fine, io continuo a non capire, davvero, di cosa dovremmo ringraziare Mattarella.
In fondo, a ben vedere, questa situazione imbarazzante e grottesca è figlia soprattutto delle sue stesse discutibili decisioni. E adesso gli tocca semplicemente rimediare ai danni. Mattarella è diventata la solita “unica soluzione possibile” nel momento in cui egli stesso ha deciso di imporre Mario Draghi a Palazzo Chigi, obbligando i partiti con il ricatto della pandemia e dell’emergenza ad una convivenza forzata e innaturale.
Avrebbe potuto utilizzare la sua moral suasion per stabilizzare il governo Conte e neutralizzare le velleità renziane, rispettando l’accordo ancora in essere tra il M5S e i partiti di sinistra, frutto di una volontà parlamentare autonoma. Oppure avrebbe potuto prendere atto dell’esito negativo delle consultazioni e condurre il Paese alle elezioni, che altrove si sono regolarmente svolte anche durante la pandemia. Invece ha voluto fare l’alchimista e imbottigliare il conflitto politico in una molotov pronta ad esplodere proprio in occasione dell’elezione del nuovo capo dello Stato.
Complice la nomina a presidente del Consiglio di un signore smanioso di succedere proprio a Mattarella, l’operazione ha di fatto legato a doppio filo il destino del Governo a quello del Quirinale, due partite che, secondo Costituzione, dovrebbero restare ben separate.
In questa situazione, considerata l’inettitudine dei partiti, ormai lacerati dalla convivenza forzata con i rispettivi avversari, le sue dichiarazioni d’intenti non potevano che cadere nel vuoto.
Avrebbe potuto, davanti al pressing di Draghi e dei partiti ormai senza faccia, avere un ultimo sussulto e dare l’ultima definitiva lezione in difesa di quella Costituzione di cui era e sarà il custode: ribadire la propria indisponibilità ad un secondo mandato per obbligare i partiti a crescere e assumersi le proprie responsabilità di fronte al Paese. Invece, ha fatto come quei genitori che non dicono mai no e poi si lamentano di dover sempre risolvere i disastri dei pargoli e, come già accaduto al suo predecessore Napolitano, anche lui ha finito con il rimangiarsi le solenni promesse fatte davanti al popolo italiano.
E per rimettere insieme i cocci da lui stesso seminati, oggi si imbarca in un’altra forzatura istituzionale che lo issa per altri sette anni al Quirinale. Si spera. Se non deciderà di mollare prima e tenere in caldo il posto per qualcun altro che nel 2023 si sarà liberato da altri impicci.
Mattarella è indubitabilmente persona perbene e tutte le sue scelte sono state certamente mosse da nobili intenzioni, ma, forse, non è stato poi quell’autorità infallibile che tutto sa e tutto aggiusta. E sarebbe forse ora di smetterla con la favola manichea e un po’ ridicola del Mattarella buono e della politica cattiva. Anche le scelte di Mattarella fanno parte della politica e lo spettacolo indecoroso offerto dai partiti anche di quelle scelte è il frutto avvelenato.