di Gianluca Pinto
Nel sentire molti giornalisti (a partire da Massimo Giannini che non fa altro da un bel po’ di tempo) che proclamano per l’ennesima volta il fallimento dei partiti e della politica riguardo alla rielezione di Sergio Mattarella, io mi permetto di esprimere un’opinione che cozza contro questa rappresentazione. Quello che vediamo è un effetto di ciò che è iniziato in Italia nel ’92.
Mentre in Europa gli stati della Cee firmano il trattato di Maastricht e inizia la disarticolazione della Jugoslavia (parte dei paesi non allineati) con la guerra in Bosnia, in Italia vengono decise la svendita del patrimonio Pubblico e le privatizzazioni, viene abolita la scala mobile (strumento di adeguamento dei salari all’inflazione), la lira subisce un attacco speculativo da parte di Soros, cui seguirà un prelievo forzoso deciso dal governo Amato (vi dice qualcosa questo nome?), la politica viene messa in ginocchio da Mani Pulite e la mafia, che doveva riorganizzarsi dopo il cambio dovuto alla fine della Guerra Fredda, colpiva lo stato cercando di portarlo a una trattativa.
Il sistema nel quale ci siamo messi, nel tempo, ha sgretolato di fatto la funzione della rappresentanza e, quindi, la possibilità di controllo collettivo sul capitale. Oggi gli stati devono sottostare alle leggi della finanza e devono foraggiare le imprese private con denaro pubblico (dov’è questo liberismo di cui si parla, dato che le mani sono sempre sui soldi pubblici?). Lo abbiamo visto anche in pandemia: l’Ue ha finanziato (con i soldi della collettività) la ricerca e poi ha comprato (sempre con i soldi della collettività) i vaccini e le farmaceutiche hanno allegramente incassato i profitti (dov’è il libero mercato? Mi sfugge…)
Oggi gli Stati hanno le mani legate, possono occuparsi solo di dare due colpi di ramazza alle macerie con fondi ridotti al lumicino e sempre più vincolati (alle imprese per la crescita, ai debiti di chi “investe” e, come solitamente accade, specula con finalità particolari) e, nel caso dell’Italia con periodici commissariamenti di banchieri appartenenti a un certo ambiente. In questo panorama la rappresentanza soffre, perché non è possibile materialmente sottoporre “alternative” reali a questa prigione e quindi per forza di cosa le distinzioni si devono creare su argomenti superficiali o su questioni profondamente divisive (che nulla hanno a che vedere con l’economia, ma hanno la funzione di polarizzare l’opinione pubblica in mancanza d’altro) che non intacchino il quadro economico generale.
Per quanto riguarda la presidenza della Repubblica, quello che vedo io è che la rappresentanza ha sofferto ancora una volta dell’impossibilità di un’autonomia nelle scelte (ovviamente anche i politici ci hanno messo del loro, come Enrico Letta e Luigi Di Maio ad esempio, ma questo non può assolutamente esaurire il problema e diventare un’alibi o un’arma per delegittimare strumentalmente la politica). Il fatto è che Mario Draghi era il convitato di pietra. Il banchiere doveva esserci, perché il mondo dell’economia, ormai svincolata da un minimo di controllo collettivo, lo esige. Lui doveva esserci in ogni modo, punto, e il fatto che, comunque, i parlamentari alla fine non avessero optato per lui alla presidenza della Repubblica ha, in qualche modo, imprigionato ancora di più i rappresentanti stessi e ristretto ulteriormente la possibilità decisionale. Questo ha fatto sì ovviamente, come Letta nipote ha dimostrato più volte, che la strada fosse per forza di cose segnata e anche in questa vicenda la rappresentanza si sia trovata in enorme limitatezza di azione.
Nella vicenda delle elezioni del presidente della Repubblica io non vedo un fallimento della politica, come vorrebbero farci credere per aumentare il discredito della politica stessa, ma un ulteriore passo nella lenta soppressione della stessa (come funzione narrativa e rappresentativa scomoda per il modello economico in cui siamo) e nello sgretolamento della rappresentanza.