L’Ue si è accorta della difficoltà di raggiungere l’obiettivo della propria strategia (“riportare la natura nella nostra vita”) a tutela della biodiversità: l’attuale rete di aree legalmente protette non è sufficientemente ampia per difendere il 30% della terra e del mare dell’Unione Europea entro il 2030. Occorrono ulteriori designazioni di territori sotto tutela per completare la rete Natura 2000 e per ampliare i regimi di protezione nazionali. Attualmente le aree protette europee ricoprono circa un quinto della superficie del continente.

In Italia esistono aree protette per un totale di oltre tre milioni di ettari tutelati a terra (circa il 10,5% del territorio nazionale). Il 19% delle acque territoriali italiane (dalla riva fino a 12 miglia nautiche) è coperto da aree marine a vario titolo protette; tuttavia, secondo la Commissione Oceanografica Intergovernativa dell’Unesco, solo l’1,67% di queste aree applica efficacemente i propri piani di gestione. Nonostante l’incremento seguito all’introduzione della legge quadro 394 del 1991, siamo ancora piuttosto lontani dagli obiettivi europei. Eppure la tendenza nazionale nei confronti delle aree protette va verso il tentativo di riduzione (la chiamano “riperimetrazione”), come avevamo già denunciato su questo giornale.

Non solo: il famoso Pnrr, elenco di progetti per la distribuzione dei finanziamenti utili alla realizzazione della transizione ecologica, ha destinato solo le briciole alle aree protette, concentrando i propri obiettivi sugli adeguamenti dei trasporti, degli edifici e degli strumenti di comunicazione.

Il consumo di suolo in Italia non accenna a diminuire: l’Istat nel suo rapporto 2021 stima quasi due metri quadrati di suolo persi irreversibilmente ogni secondo. Davanti a questa propensione diventa difficile credere che i nostri amministratori si illuminino di colpo e procedano alla conservazione di territorio naturale, visto che quello urbanizzato è ormai vicino alla saturazione. L’idea di parco si fonda su un progetto di sviluppo in stretta armonia con la natura: dunque non solo conservazione e tutela dei beni comuni, ma anche miglioramento della qualità di vita.

La responsabilità maggiore per il mancato successo di questo modello è forse non essere stati capaci di comunicarlo efficacemente, di spiegare il vero significato di parco, di convincere e perfino di illudere. Così è emersa una lettura in chiave quasi mercantile, che riduce i parchi e le aree protette a luoghi destinati prevalentemente al turismo enogastronomico e alla promozione del made in Italy, suscitando solo emozioni superficiali senza essere in grado di affrontare scientificamente i problemi, tanto che successive revisioni della legge 394/91 hanno portato all’assurda eliminazione della componente scientifica nei consigli direttivi dei Parchi nazionali; peraltro una visione distorta ha assimilato i parchi agli enti locali o addirittura a grandi pro loco.

Come riportato nella Carta di Fontecchio le aree protette, e in particolare i parchi che tra le aree naturali sono le più complesse, da un lato sono eccezionali serbatoi di biodiversità, ricchi di paesaggi e di bellezza; dall’altro costituiscono laboratori dove si sperimenta una gestione territoriale in armonia con l’ambiente, che pone al centro il rapporto tra la persona e la natura e pertanto diventa modello di uno sviluppo effettivamente sostenibile, valido tendenzialmente per tutto il territorio.

La natura, proprio perché non conosce barriere fisiche, è in grado di abbattere le barriere esistenziali, sociali, geopolitiche che dividono l’umanità; le aree protette possono dimostrare concretamente come sia possibile salvaguardare con la natura sia i diritti delle persone, a partire dalla inclusione dei più deboli, sia i diritti dei popoli e perciò la pace tra le nazioni e la collaborazione tra gli stati.

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