di Luigi Manfra*

L’inflazione secondo le stime dell’Ocse è cresciuta, per l’insieme dei paesi che vi aderiscono, dall’1,2% del 2020 al 5,8% del 2021, con un picco negli Stati Uniti del 7,0%. L’Eurostat ha diffuso il dato finale sull’andamento dei prezzi al consumo nell’area euro a dicembre 2021: l’inflazione ha registrato un incremento annuale del 5,0%. Per quanto riguarda l’Italia, l’Istat ha comunicato che nel mese di dicembre 2021 l’indice nazionale dei prezzi al consumo ha avuto una crescita del 3,9% su base annua, per salire ulteriormente al 4,8% a gennaio 2022. Questi dati dimostrano, eloquentemente, che i prezzi hanno ricominciato a crescere innescando molti timori su un ridimensionamento della forte ripresa economica che ha caratterizzato il 2021.

La teoria economica tradizionale afferma che il rapido aumento della domanda di beni e servizi da parte delle imprese e dei consumatori, che si è verificato nell’anno appena trascorso, è la causa dell’impennata dei prezzi. Questa spiegazione appare insufficiente alla luce dei profondi cambiamenti che si sono verificati nel sistema produttivo e della finanza negli ultimi anni. La produzione, grazie alla globalizzazione, si è parcellizzata sia a livello territoriale che settoriale alla ricerca del massimo profitto. Si è così formata una lunga catena di forniture (supply chain) che include le risorse e le tecnologie coinvolte nella produzione di una merce, dall’acquisto delle materie prime e dei semilavorati, fino al prodotto finito. Questa catena, estesa in tutto il mondo, pur avendo come obiettivo la ricerca della massima efficienza, è soggetta a ritardi e blocchi nelle forniture, che la pandemia ha messo in luce in tutta la loro gravità. L’effetto finale non è soltanto il ritardo nelle consegne ma anche un rapido aumento dei prezzi.

La crisi delle catene di approvvigionamento globali è diventata, quindi, un tema caldo nel dibattito economico per l’effetto frenante sulla ripresa economica e per le pressioni inflattive che innesca. La sospensione delle attività produttive avvenuta in molti mesi del 2020, e la veloce ripresa nell’anno seguente, hanno evidenziato le rigidità nelle forniture in diversi settori. Innanzitutto nella produzione di energia, ma anche nei noli marittimi, nelle materie prime e nel settore tecnologico dove mancano i microchip più evoluti prodotti in gran parte da Hong Kong, Cina, Taiwan e Corea del Sud. Questi quattro paesi sono passati da una quota del 20% nel 2001 ad una del 61% nel 2020, dimostrando come la concentrazione geografica nell’industria dei semiconduttori sia di fatto compiuta. Questo processo, avviato da un paio di decenni, ha portato il sistema produttivo e distributivo ad anteporre l’efficienza ad ogni altro obiettivo.

La pandemia, però, ha stimolato molte imprese a riflettere sulle misure rivolte ad accrescere la resilienza delle supply chain riportando alcune produzioni strategiche dentro i confini nazionali. Il governo degli Stati Uniti, per stimolare la produzione domestica, ha commissionato un report sullo stato di salute delle catene di forniture in alcune industrie fondamentali, come quelle dei microchip, dei farmaci e delle batterie elettriche.

Mentre i ritardi nelle forniture si stanno via via riducendo, tornando alla normalità, l’aumento dei prezzi non si attenua, modificando la distribuzione del reddito tra i cittadini. L’inflazione infatti non è neutrale, ma colpisce in modo diseguale riducendo il potere d’acquisto dei ceti meno abbienti, perché non tutti i soggetti che partecipano al processo produttivo e distributivo hanno la libertà di modificare i prezzi, e quindi i propri redditi. I lavoratori dipendenti, ad esempio, sono vincolati da contratti di lavoro di durata pluriennale, mentre commercianti e imprenditori possono variare i prezzi, e quindi i loro redditi, con un unico limite dato dal grado di concorrenza del mercato in cui operano.

A livello internazionale, dove situazioni oligopolistiche consolidate sono presenti in molti settori, da quelli tecnologici a quelli delle materie prime, con cartelli espliciti come l’Opec o di fatto come nel settore dei semiconduttori, è pratica comune aumentare i prezzi più di quanto aumentano i costi di produzione. La redistribuzione del reddito a sfavore dei redditi fissi che ne deriva è l’aspetto iniquo dell’inflazione, che il linguaggio economico definisce asetticamente come una modificazione dei prezzi relativi. Parafrasando Marx, che ha analizzato la lotta di classe nella fase della produzione, l’inflazione è una particolare lotta, non di classe ma di ceti, che opera nella distribuzione del reddito. Chi ha la possibilità di aumentare i propri prezzi, e quindi i propri redditi, si impadronisce di una fetta più grande di beni e servizi di quanto avveniva prima, a spese degli altri che vedono ridotto il loro potere d’acquisto.

* Già docente di Politica economica presso l’Università Sapienza di Roma, si occupa di economia internazionale, soprattutto in relazione al Mediterraneo.

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