Niccolò Cerioni ha il tocco magico di chi riesce a trasformare in successo tutto ciò che sfiora. Tecnicamente è uno stylist, lui però preferisce definirsi “un creativo che prova a realizzare un immaginario intorno a un artista“. Ci sono le sue intuizioni dietro i look di Jovanotti e Achille Lauro, è suo lo stravolgimento ultrapop di Orietta Berti. Veste, trasforma, reinventa, gioca con l’ironia e l’effetto shock. Nulla è casuale, tutto è studiato e ha dei riferimenti precisi, all’arte, alla moda, alla storia della musica. Più che stupire, preferisce fare sognare. “Spero di riuscirci anche con Morandi e Rettore, al prossimo Sanremo”, racconta a FqMagazine collegato dal Sugarkane Studio, la casa di produzione che ha fondato con il marito, il regista e fotografo Leandro Emede, con cui ha avuto due bambini ancora in attesa di essere riconosciuti in Italia.
Nicolò, lei cosa sognava da ragazzino nella sua casa in cima alla collina, isolata da tutto?
Di fare delle cose importanti, di essere felice e di lasciare un segno. Volevo gli altri sapessero che avevo un mondo interiore da esprimere. Guardavo le colline marchigiane e mi sentivo fuori posto.
Quando ha smesso di sentirsi fuori posto?
Mai. Mi ci sono sentito anche a Milano o a New York: c’è voluto un po’ per capire che quello è un punto di forza, non una debolezza. La diversità è il mio grande valore.
La provincia è un limite o una forza?
Da piccolo sentivo limitato, anche se non ho mai sognato di vivere in una grande città. Avevo voglia di fare esperienze, di scappare da lì. Poi però ho rivalutato tutto: la provincia mi ha dato una libertà che chi è cresciuto in città non conoscerà mai. Per questo penso spesso a dove far crescere i miei figli.
Perché?
Un amico irlandese mi ha detto: “Non voglio che mia figlia cresca con la pelle dura come chi cresce in città”. Chi cresce in città fa i conti con un posto pieno di stimoli ma anche con la bruttura e le cose da evitare: ci si deve confrontare con il male e la cattiveria del mondo, certo, ma vorrei che i loro anni spensierati fossero leggeri. Non vorrei privarli di quella libertà che ho respirato io.
La sua finestra sul mondo qual è stata?
La tv. È da lì che uscivano Madonna, la Carrà, i cartoni giapponesi. Ero attratto dall’intrattenimento, che all’epoca aveva una forza dirompente.
La moda invece l’ha respirata da sempre grazia a sua madre. “Visionaria e combattiva, reinventa l’estetica dei marchigiani: tutti venivano a vestirsi da Nicole”, ha detto.
Papà faceva il rappresentante di scarpe, mamma aveva un boutique molto conosciuta. Ma io, che vivo da sempre di grandi dicotomie, la moda la amo ma la detesto.
Si spieghi.
La moda delle sfilate non mi interessa. Mi interessa l’abito in quanto strumento comunicativo. L’estetica formale nella mia testa deve da sempre servire a veicolare un messaggio, non a stabilire il tasso di eleganza: non esiste l’eleganza, esistono le persone eleganti.
Chi è uno stylist?
È colui che sceglie cosa indossa un artista, quello che una volta si chiamava curatore immagine. Ma io non mi riconosco molto in questa definizione.
E cosa si sente?
Mi sento più un creativo che prova a realizzare un immaginario intorno a un artista, cercando di fare in modo che quell’immaginario diventi un universo che parli di qualcosa, che lanci un messaggio, diventi una leva che scardina.
Gli artisti che la chiamano cosa vogliono da lei?
Chi mi chiama non vuole vestirsi alla moda ma creare un percorso. Non immagino mai le cose giuste perché nel giusto c’è poca complessità. È l’errore che crea le cose belle. L’universo è stato creato da un’esplosione no?
Jovanotti, Pausini, Lauro. Perché i grandi artisti si sono fidati e si fidano di lei?
Credo di aver dimostrato di poter fare la differenza. Lavoro molto con il concetto di fallimento, che per me è una componente fondamentale. Se non si rischia di fallire, non si fanno cose straordinarie. Li porto fuori dalla zona di comfort perché lì si può eccellere, anche a costo di cadere. Gli artisti mi hanno permesso di esprimermi e creare delle dinamiche ma sono poi loro che ci mettono la faccia.
Lei quando ha fallito?
È un fallimento ogni volta che non riesco a spiegare cosa ho in testa o quando non arriva il messaggio giusto. Il fallimento è l’indifferenza. Poi ci sono i fallimenti agli occhi degli altri che per me sono successi clamorosi.
Ad esempio?
Leandro, mio marito, ed io seguivamo la direzione artistica di Emma Marrone all’Eurovision del 2014. Emma fu aspramente criticata, noi messi in croce. Per me invece quell’esperienza fu un successo: lei uscì dalla sua zona di comfort, sul palco diede tutta sé stessa con un lavoro fuori dall’ordinario. E poi c’è sempre questo double standard quando l’artista è donna.
Ovvero?
Le cantanti da noi devono essere belle, educate, cantare di cose accettabili, possibilmente stare al posto loro. S’immagini una donna che fa uno show alla Lauro o alla Damiano dei Mäneskin: il nostro è un paese così misogino che verrebbe massacrata.
Non che a Lauro sia andata meglio: quando levò il mantello e rimase in tutina sul palco dell’Ariston, fu per giorni oggetto di critiche asprissime. Ma l’intrattenimento è questo: deve stupire, nel bene e nel male, portare lo spettatore in un altro universo, fargli vivere un’esperienza mentre sta seduto sul divano. Lauro togliendosi il mantello ha lasciato un segno nella cultura pop, come il pancione della Bertè o il tanga della Oxa, tanto per restare a Sanremo.
I look di Lauro al Festival del 2020 come nacquero?
Durante lunghe notti di confronto con lui e Angelo Calculli, quando nemmeno sapevamo se sarebbe stato preso. Fu un percorso interessante, Lauro cercava un modo per dire “adesso sono questo” attraverso una performance. Immaginammo un trait d’union per tradurre in look quel “me ne frego”, che poi significa “vado contro ciò che pensate sia giusto”.
All’iconica tutina come arrivaste?
Ci voleva un modo teatrale per dire “mi spoglio delle consuetudini” e il riferimento fu alla spogliazione di San Francesco. La tutina un modo per simboleggiare la povertà. Prima di arrivare a quella versione, Gucci ne realizzò di ogni tipo, col pantalone, corta, con un body, solo con una mutanda.
Quando immagina i look prevale la voglia di stupire o di far sognare?
Voglio far sognare il pubblico ma con qualcosa che resti nell’immaginario collettivo: con Lauro di siamo riusciti se due anni dopo ancora la gente ne parla.
A Sanremo 2022 come lo vestirà?
Ci stiamo pensando. Lauro è in un momento importante della sua carriera, dimostra con ciò che fa di essere unico perciò dovremo essere all’altezza di questa situazione.
Sarà lei a curare anche l’immagine di Donatella Rettore.
Cominciamo a breve a studiare i suoi look. Voglio fare le scelte giuste perché fatto parecchie ricerche e Rettore è sempre stata provocatoria e avanti: era Lady Gaga ancora prima di Gaga.
E poi c’è Morandi.
La scorsa estate Jovanotti mi ha chiesto di vestirlo per il video di Allegria. Ero intimidito quando me l’ha presentato, invece come tutti i grandi mi ha messo subito a mio agio. Mi emoziona essere parte del suo ritorno in gara a Sanremo, proprio come lo scorso anno accadde con Orietta Berti.
Il colpo di fulmine professionale con la Berti quando è scoppiato?
Attraverso un amico comune, il collezionista Giampaolo Guerra. “Ma quando me la presenti?”, gli chiedevo da tempo. L’occasione è arrivata con il suo primo video clip, per i cinquant’anni di carriera. Si è fidata ed è nata una grande collaborazione e soprattutto un’amicizia. Orietta è un inno alla vita, si mette in gioco, è ironica come poco. “Mi fido di te, faccio tutto, non ho paura di essere sopra le righe”.
La sua grande chance è arrivata grazie a Jovanotti, proprio mentre lei viveva un periodo di crisi lavorativa.
Nel 2010 Mtv chiuse i programmi e io mi trovai improvvisamente senza lavoro. Leandro, che era l’assistente storico di Toscani, voleva cambiare vita e decidemmo di aprire uno studio di consulenza creativa per artisti. Oggi tutti ci cercano, ma quando ci proponevamo ai discografici che conoscevamo, ci ridevano in faccia. Così, un po’ depressi, con i pochi risparmi di Leandro ci trasferimmo a Los Angeles dove lui seguì un master.
Jovanotti quando entra in scena?
Quell’estate fece una serie di concerti e visto che noi eravamo lì, gli abbiamo scritto per chiedergli di seguirlo e realizzare piccolo documentario con due telecamere. Dopo cinque minuti, lui rispose: “Sì, mi piace l’idea”. Ci trovammo bene e lui mi disse che ci avrebbe richiamato l’anno dopo per il tour Ora. “Non ci chiamerà mai più”, dicevo. Invece non solo ci ha contattati ma ci ha dato fiducia quando nemmeno noi ne avevamo. È stato un incontro catartico, in dieci anni abbiamo fatto cose incredibili, c’è uno scambio creativo continuo: vicino a lui si cresce.
Facciamo una carrellata delle sue collaborazioni partendo dai fenomenali Mäneskin.
Abbiamo lavorato per un anno e mezzo e ammetto che loro riuscirebbero ad essere fenomenali anche con un jeans e una maglietta sudicia. Con il mio team abbiamo puntato sui richiami al rock degli anni ’70, giocando con il loro gusto per il vintage ma senza renderli polverosi. Loro sono freschi, internazionali, sanno giocare con l’erotismo puntando su una gioia erotica che sa di libertà.
Se dico Laura Pausini?
Con lei ho capito cosa significa avere l’x factor. Può piacere o non piacere, ma quando sale sul palco non c’è storia per nessuna. È una lavoratrice incredibile.
Simona Ventura.
Simona è rimasta una regina della tv nonostante abbiano a strapparle la corona. Il suo linguaggio ha sdoganato un’idea camp di tv che resta sempre contemporanea. Oggi le viene dato poco merito ma nel mio mondo ideale sarebbe un dirigente importante della televisione italiana.
Ha vestito anche lo scrittore Jonathan Bazzi.
Ci conosciamo da anni, frequentavamo le notti milanesi del Plastic e del Gasoline. Negli anni ci siamo persi e riavvicinati. Quando è uscito Febbre ed è arrivato nella cinquina finale dello Strega, mi ha chiamato: non mi era mai capitato di vestire un finalista di un premio così importante. Mi piaceva che lui arrivasse lì a rompere le regole, a sparigliare i giochi e gli ho fatto scrivere femminuccia sulle unghie.
Prova mai soggezione quando incontra per la prima volta personaggi così importanti?
Mi è capitato spesso, anche con Pausini e Jovanotti. Ma la volta in cui la soggezione mi ha pietrificato è stato con Raffaella Carrà, che per me è una divinità: la considero il paradigma televisivo, il suo lavoro con il costumista Sabatelli per me è la Bibbia.
Quando l’ha vista cosa accadde?
Nel back stage di Viva Rai Play, da Fiorello, lei e Lauro dovevano fare uno sketch. Lei mi fece complimenti per la camicia di Lauro, io balbettai un grazie, le strinsi la mano ma non ebbi il coraggio di dirle che m’ispirai proprio ad una sua camicetta che indossava a Pronto Raffaella. Per me la Carrà era soprannaturale.
C’è anche la Carrà tra le icone che l’hanno ispirata e di cui parla nel podcast che ha realizzato e che uscirà a breve.
Ripercorro i miei momenti importanti, professionali e soprattutto privati. Il podcast è arrivato per caso e mi sono divertito a farlo. Nel dna resto un contadino marchigiano, mi godo poco i successi, non me ne frega di mondanità e pr, mi ricordo solo la fatica del lavoro. Questo è un modo inusuale di fare il punto della mia carriera.
A proposito della Carrà, lei è stato ospite di Drag Race Italia – che da domenica 9 gennaio sbarca in chiaro su Real Time – proprio nella puntata omaggio all’immensa Raffa. Le piacerebbe fare il giurato dello show?
Adoro il format e sarebbe il mio grande sogno fare il giudice: non è solo un talent, è uno show che parla di talento, maestria ed è soprattutto uno show politico perché parla di arte drag, di omosessualità e bullismo con delicatezza e fierezza. Aiuta molti a non avere pregiudizi, avvicina il grande pubblico a una categoria umana che fino ad oggi è stata guardata con l’occhio del pregiudizio.
L’Italia secondo lei è un paese omofobo?
Non siamo così cattivi come ci dipingono molti politici, che stuzzicano la parte più becera dell’elettorato solo per prendere voti. Sì, ci sono ancora molti tabù da abbattere e bisogna spiegare alle persone che un diritto acquisito – come il DDl Zan – non toglie nulla a nessuno. Anzi.
Tornado alla tv: ha ricevuto proposte in questi mesi?
Ci sono stati dei contatti per dei progetti che spero vadano in porto. Conosco la tv da dietro le quinte e mi affascina stare davanti alle telecamere se la mia presenza può veicolare un messaggio. Non m’interessa diventare un personaggio ma mi piacerebbe che la mia storia potesse aiutare gli altri: sono un uomo gay che lavora duramente, un marito, un padre che ha lottato per avere i suoi figli. Vivono una normalità straordinaria.
Lei e suo marito avete avuto due gemelli eterozigoti, Blu e Libero, nati con gestazione per altri. Per anni avete affrontato una battaglia legale complicata per il riconoscimento, che si è risolta da pochi giorni.
Sono nati in America con una pratica legale da quarant’anni e che da noi viene definita “utero in affitto” rendendola un qualcosa di sordido. L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini cambiò i documenti anagrafici, togliendo la dicitura genitore uno e genitore due per reinserire padre e madre: quando abbiamo fatto la richiesta di trascrizione del documento di nascita, non poteva essere trascritto perché nella casella madre non potevamo essere inseriti noi.
Come vi siete mossi?
Attraverso i legali Giacomo Cardaci e Manuel Girola, due luminari dei diritti Lgbtqi+. Parliamo di un vuoto legislativo retrogrado, che mina anche il diritto di tante coppie etero costrette a ricorre alla Gpa all’estero. È molto triste non sentirsi tutelati nel privato ma per fortuna ora abbiamo risolto e abbiamo una genitorialità piena entrambi, senza compromessi al ribasso.
Quando raccontate la vostra storia c’è accoglienza o intolleranza?
Mi piace spiegare la nostra storia, soprattutto a gente lontana dalla nostra bolla, che magari vota a destra. E mi sorprende sempre la reazione. “Ah, ma allora siete come tutti”. Purtroppo c’è tanta gente in cattiva fede fomentata da chi pensa che il consenso sia meglio del buon senso. È il peccato capitale della nostra politica.
Ai suoi figli cosa augura?
Forse è banale, ma che siano felici. Vorrei che sapessero dare una priorità alle cose e capire che essere felici è una conquista ed è importante connettersi con la parte migliore di sé.