Prevista, prevedibile, ma probabilmente inutile, visto l’incombere della prescrizione, è arrivata la prima condanna per il crack di Veneto Banca, l’istituto di credito di Montebelluna che ha bruciato centinaia di milioni di euro e messo sul lastrico decine di migliaia di risparmiatori. Vincenzo Consoli, l’ex amministratore delegato, indicato come l’unico responsabile di falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza, si è visto infliggere dal Tribunale di Treviso la pena di 4 anni di reclusione. I pubblici ministeri Massimo De Bortoli e Gabriella Cama avevano chiesto una pena di 6 anni. La difesa, invece, aveva invocato l’assoluzione, mentre le parti civili avevano presentato un conto per i danni che supera i 100 milioni di euro.

Le novità della sentenza, letta dal presidente Umberto Donà, con a latere i giudici Carlotta Brusegan e Alberto Fraccalvieri, sono due. La riduzione di pena di due anni è dovuta al fatto che le attenuanti generiche sono state considerate equivalenti alle aggravanti. Poi, a sorpresa, il Tribunale ha deciso una confisca per equivalente pari a 221 milioni di euro. Questa richiesta non era stata avanzata dai pubblici ministeri, ma i giudici hanno ritenuto che ci fossero gli estremi per ordinarla, anche se si tratta di una confisca virtuale, visto che il banchiere non risulta proprietario di somme simili o beni equivalenti.

I due reati per i quali è stato condannato sono un residuo delle imputazioni iniziali, visto che alla vigilia di Natale è andato in prescrizione l’aggiotaggio, destino non dissimile da quello che potrebbero avere i reati per cui Consoli è stato ritenuto colpevole. Per il falso in prospetto la prescrizione è questione di giorni, per le false comunicazioni si dovrebbe arrivare fino al 2024, prima che le accuse vengano cancellate dallo scorrere del tempo.

Tutto il processo ruotava attorno alla gestione di una banca che appariva florida e aveva generato un costante aumento del valore delle azioni. In più occasioni la gestione era stata additata come esempio di indipendenza finanziaria del Veneto e del suo tessuto produttivo. In realtà si era generato un buco che era stato nascosto grazie al meccanismo dell’acquisto di azioni da parte dei clienti finanziate con soldi della banca stessa. Quando il bubbone si era manifestato, nel 2014 era stato deciso un aumento di capitale da 500 milioni di euro. Ma scoperto il giochino, il castello è crollato. Per questo Veneto Banca (ma anche la Banca Popolare di Vicenza di Giovanni Zonin) aveva registrato l’azzeramento del valore delle azioni e il passaggio sotto Banca Intesa.

Il pm Massimo De Bortoli ha sempre lamentato l’assenza dello Stato che non ha garantito risorse giudiziarie (uomini e mezzi) per far fronte a un’inchiesta imponente, che ha subito un primo grave rallentamento quando gli atti finirono a Roma, per tornare dopo un paio d’anni a Treviso ritenuta la sede competente per la celebrazione del processo. “La prescrizione è il fallimento dello Stato” aveva detto, riferendosi al primo ramo del processo che è caduto, l’aggiotaggio. “Ribadisco quel giudizio, anche se era riferito solo a un reato. La sentenza ha accolto in toto la prospettazione dell’accusa”. A che cosa serve questa sentenza? “A fare giustizia – risponde l’avvocato Luigi Fadalti, costituito per alcune parti civili – ma non a far recuperare i soldi ai risparmiatori”.

A Treviso restano aperti altri due filoni. All’udienza preliminare (12 febbraio) è arrivato quello per associazione per delinquere finalizzata alla truffa, che vede imputati Consoli e quattro manager di Veneto Banca. Un altro fascicolo ha più probabilità di non essere decapitato dalla prescrizione. Riguarda il reato di bancarotta fraudolenta, ma attende che la Cassazione si pronunci sulla data a cui ancorare la dichiarazione dello stato di insolvenza della banca, perché è da quel momento che comincia a scorrere l’orologio della giustizia.

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