Il fortissimo rincaro dell’energia e delle altre materie prime frena la produzione industriale italiana. Secondo il Centro studi di Confindustria, dopo il calo dello 0,7% di dicembre in gennaio la caduta è stata dell’1,3% per effetto di aumenti dell’elettricità (+450% su gennaio 2021) e delle altre commodity, che “comprimono i margini delle imprese e, in diversi casi, stanno rendendo non più conveniente produrre”. Per viale dell’Astronomia “a questo si sommano le persistenti strozzature lungo le catene globali del valore“. La dinamica “mette a serio rischio il percorso di risalita del Pil, avviato lo scorso anno”. Previsione peraltro condivisa da tutti gli osservatori, secondo cui l’economia crescerà nel 2022 molto meno del 4,7% stimato dal governo lo scorso autunno nella Nadef: l’Ufficio parlamentare di bilancio solo due giorni fa ha rivisto al ribasso le previsioni a +3,9% a causa di un primo trimestre “molto debole“. Più pessimista Confcommercio secondo cui non si supererà un +3,7%. Il tutto senza tener conto delle nuove norme anti frode sul Superbonus che secondo le imprese e quasi tutta la maggioranza bloccheranno il boom dell’edilizia che ha trainato la ripresa del 2021.
Il rallentamento, peraltro, non potrà non impattare sul mercato del lavoro, già caratterizzato da una ripresa “avara” fatta per tre quarti da contratti a termine. In questo scenario le risorse del Recovery plan non sembrano poter fare la differenza nel breve periodo. Ammesso che si riescano a mandare in porto i 100 obiettivi e target in agenda per quest’anno. Un’indagine dell’Istat pubblicata venerdì mostra che per circa la metà delle imprese non hanno “nessuna” rilevanza come fattore di sostegno e di traino dell’attività nel primo semestre 2022. La rilevazione ha interessato un campione di 90.461 imprese con oltre tre addetti attive nell’industria, nel commercio e nei servizi, rappresentative di un gruppo di circa 970mila aziende che producono il 93,2% del valore aggiunto nazionale e impiegano il 75,2% degli addetti (13,1 milioni) e il 95,5% dei dipendenti. Il 61% spera soprattutto nella ripresa della domanda interna, mentre “le misure che costituiscono il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono un fattore di sostegno percepito da una parte importante ma non prevalente”, spiega l’istituto di statistica. I capitoli che riguardano la transizione ecologica e la mobilità sostenibile in particolare “hanno evidentemente un orizzonte di sviluppo più lontano”, evidenzia il report, per cui non avranno “nessuna” rilevanza per il 52% delle imprese. Più della metà assegna invece una modesta (36%) o elevata (17%) rilevanza alle misure legate a digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura: anche in questo caso comunque il 47% non si attende alcun effetto traino. L’importanza percepita tende comunque a crescere all’aumentare della dimensione aziendale, segno che i “piccoli” sono (o si sentono) esclusi dall’onda lunga dei fondi europei.
Le prospettive per il futuro comunque sembrano relativamente solide: la gran parte del campione, oltre l’80%, prevede di trovarsi in una situazione di completa o parziale solidità entro la prima metà del 2022. Poco più del 3% si giudica, invece, gravemente a rischio di non riaprire, soprattutto nei settori più colpiti nella crisi pandemica, dal turismo alle discoteche fino alla ristorazione.