di Tito Borsa
Ho letto con profondo stupore il post del professor Paolo Ercolani sul festival di Sanremo e il fatto che da qualche anno sia diventato un palcoscenico per ribadire diritti individuali come la libertà sessuale. Un post secondo cui “tutto questo clamore folcloristico sui diritti individuali legati alla morale e alla sessualità” finisce con “mettere in sordina i diritti sociali che ci riguardano tutti in quanto esseri umani”.
Pensare che insistere su temi come la libertà sessuale significhi mettere necessariamente in secondo piano le disuguaglianze sociali o la “logica mercatistica” nella scuola significa ragionare come quelli che si lamentavano che in parlamento si discutesse del Ddl Zan anziché di cose “più urgenti”. È una sciocchezza. Non siamo costretti da qualcuno a concentrarci su una cosa alla volta e poi la priorità che si dà a un tema è quanto di più soggettivo ci sia.
Il festival di Sanremo da qualche anno ha dato spazio alla libertà sessuale, sia contro gli stereotipi di genere che a favore di qualunque identità di genere e orientamento sessuale. E questo è un gigantesco traguardo. Quello che il professore chiama “carrozzone di commenti, considerazioni e dibattiti” è la reazione che ci fa capire che questa è la direzione giusta. Siamo un Paese becero e bigotto, e su questo mi sembra che Ercolani concordi con me. Se milioni di persone vedono su Rai Uno un programma in cui si normalizza qualunque identità di genere e orientamento sessuale e in cui si combattono apertamente, anche con piccoli gesti, gli stereotipi di genere, non può che essere qualcosa di positivo.
È ovvio che poi queste battaglie per la libertà sessuale vengono declinate in “sanremese”, cadendo talvolta nel patetico, come nel caso di Achille Lauro che quest’anno ha voluto fare il rivoluzionario de noantri. Ma sono cadute di stile che non rendono meno meritoria e meno importante la battaglia che ci sta dietro.
Sinceramente non mi interessa sapere se dietro questa direzione artistica c’è davvero il desiderio di cambiare le cose oppure lo si fa perché è il trend dominante in questo momento. L’importante è il risultato, che è quello di iniziare a normalizzare delle tematiche che è doveroso che trovino espressione anche nei media mainstream. Sicuramente un risultato migliore dell’ironia del professor Ercolani quando fa la lista di lettere dell’acronimo Lgbtqi scimmiottando le varie sigle: “Lgbtqiapk (sono rimasto a queste lettere, ma non mi azzardo a porre limiti all’umana provvidenza)”.
La libertà sessuale è un diritto inalienabile dell’individuo. Ed è il diritto di vivere serenamente la propria identità di genere e il proprio orientamento sessuale, di non essere vittima di piccoli o grandi stereotipi di genere e di vivere la propria sessualità come meglio si crede, finché non danneggia qualcun altro. Mi perdonerà il professore se non mi lascio distrarre dalle sue citazioni a Karl Marx, Friedrich Engels o Antonio Gramsci, con tutto il rispetto per dei grandi filosofi, ma quando li si cita bisogna farlo bene: ritenere Sanremo “folclore” – ossia, usando le parole di Gramsci, “legato alla classe dominante” – significa guardare solo al (banale) fatto che chi partecipa al festival non è gente comune. Ma ci si scorda che il pubblico da casa, con numeri da record, è estremamente eterogeneo.
Per questo motivo l’espressione di quella che (purtroppo) viene ancora considerata “diversità” è importante e sempre per questo motivo la gag di Checco Zalone sulla donna trans, una gag che ha messo insieme in modo maldestro una montagna di stereotipi, è stata (per usare un eufemismo) poco riuscita e il risultato è stato un passo falso.
Se Sanremo riesce a far accettare anche solo a un genitore un figlio non eterosessuale o cisgender, allora significa che è servito a qualcosa. Perché, caro professor Ercolani, noi possiamo stare qui a discutere di filosofia per giorni ma la realtà è che per tante persone la libertà di essere se stessi è ancora un’utopia.