“Io sentivo che c’era qualcosa di sbagliato, ma non avevo argomenti per spiegare il perché. Poi ho capito”. Stella Okungbowa, nigeriana, è Community trainer per ActionAid e si occupa di mediazione culturale: negli ospedali, in tribunale, con le associazioni. Fra i tanti temi che affronta ogni giorno ci sono anche le mutilazioni genitali femminili (mgf). L’organizzazione mondiale della sanità le definisce “pratiche di rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o altre alterazioni indotte agli organi genitali femminili, effettuate per ragioni culturali o altre ragioni non terapeutiche”. Benefici per chi le subisce: zero. Rischi: tanti e gravi. La religione, beninteso, non c’entra niente: “Viene spesso vissuta come una tradizione da conservare, che parte dai bisnonni e arriva fino ai nipoti”. In Nigeria è illegale dal 2013, ma continua a essere praticata soprattutto nelle aree rurali. “Le famiglie si rivolgono a figure che si chiamano ‘guaritrici’. Sono loro a compiere l’operazione”, prosegue Okungbowa. “Nel Paese è svolta senza anestesia, su bambine che sono nate da otto giorni. A pagamento: una somma pari a 100 -150 euro, elargita in denaro o tramite regali”. Le ripercussioni restano poi per il resto della vita: “Ma il punto è che non c’è dialogo sul tema, proprio perché radicato nel passato di alcune popolazioni. Si pensa che si possa fare così e basta”. E invece, col tempo, Okungbowa ha scoperto che c’erano alternative: “Nel 2016 ActionAid ci ha fatto fare un esercizio di body mapping. Abbiamo passato in rassegna tutte le parti del corpo umano, fino ai piedi: ognuna di esse aveva una funzionalità specifica. Senza la testa, il corpo non è completo. Non lo è senza le mani, senza le braccia, senza gli occhi. Lo stesso vale per i genitali. Se vengono mutilati per ‘regolare l’appetito sessuale’ viene tolta un’importante di parte di noi. Ecco quali erano gli argomenti che mi servivano”.
Le mgf sono praticate in 92 Paesi, eppure restano un fenomeno in parte sommerso. Secondo l’Unicef le donne nel mondo che hanno subito questa pratica sono più di 200 milioni. Quelle che potrebbero subirla entro i 15 anni di età sono quattro milioni. Africa centrale, Medio Oriente e Asia soprattutto, ma c’è anche l’Italia: le stime più recenti (2019) sono dell’Università Milano Bicocca e contano 87.600 portatrici di mgf all’interno dei confini nazionali. Fra queste, 7.600 sono minorenni. A rischio oltre 5mila bambine. Il governo ha avviato due piani programmatici per cercare di arginare il fenomeno, ma il capitolo prevenzione resta senza linfa. Action Aid ha messo in risalto che il numero verde specifico contro le mutilazioni genitali femminili – 800 300 558 – gestito dal ministero dell’Interno, nel biennio 2020-2021 ha ricevuto 13 chiamate – di cui solo 4 inoltrate alle squadre mobili competenti. Le leggi di bilancio dei due anni considerati, precisa la ong, hanno destinato circa 680mila euro a questo servizio. “Di certo le leggi punitive non bastano, un esempio è l’Egitto. Le mutilazioni sono fuori legge ma il 90% delle donne ha subito infibulazione. Vanno avanti a farle, anche se illegalmente”, spiega Tiziana Dal Pra, fondatrice della onlus Trama di Terre. “Una prima prevenzione la si ottiene relazionandosi con queste donne, avendo con loro un dialogo aperto. È importante soprattutto non essere discriminanti da un punto di vista medico: molte delle vittime scelgono di non parlare perché percepiscono sbigottimento dall’altra parte. Si sentono dei mostri“. E poi è necessario lavorare sull’interazione di più aree sociali: “Bisogna creare un’ampia rete di conoscenze per non trattare questo problema solo da un punto di vista sanitario. Perché, come è evidente, non si tratta solo di ferite fisiche. Anzi, vanno coinvolti gli istituti scolastici e i consultori. Sono necessari percorsi di accompagnamento che riassumano tutti questi settori, puntando su una formazione incentrata sui diritti e trovando il giusto equilibrio fra un’attenzione eccessiva – che ci fa allarmare quando non serve- e l’ignoranza”.
Action Aid ha proposto una linea di intervento: far convergere il numero verde contro le mutilazioni genitali femminili nel 1522, allargando la rete dei centri e dei servizi disponibili. Intanto, porta avanti il progetto Chain, che ha l’obiettivo di rafforzare in cinque paesi europei, fra cui l’Italia, la prevenzione, la protezione e il sostegno a donne e ragazze esposte al rischio di mutilazioni genitali femminili o matrimoni forzati e precoci. Questi ultimi infatti sono connessi alle mgf. La Convenzione di Istanbul li definisce come “L’atto intenzionale di costringere un adulto o un bambino a contrarre matrimonio. […] il fatto di attirare intenzionalmente con l’inganno un adulto o un bambino sul territorio di una Parte o di uno Stato diverso da quello in cui risiede, allo scopo di costringerlo a contrarre matrimonio”. Secondo l’Unicef sono oltre 650 milioni le donne e le ragazze che si sono sposate prima di diventare maggiorenni. La situazione è pesante soprattutto in Niger, Repubblica Centrafricana e Chad, dove il 67% delle spose ha meno di 18 anni. La seconda regione del mondo più colpita è l’Asia meridionale (30%). E l’Italia? Stando a quanto emerso da una ricerca del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, nel 2014 circa 2mila ragazze sono state vittime di accordi in famiglia per colpa dei quali sono state costrette a sposarsi nei Paesi d’origine.
Sia su questo aspetto sia sul precedente, spiega Dal Pra, c’è una differenza fra le donne ormai stabilizzate in Italia da anni e quelle arrivate in qualità di richiedenti protezione internazionale: “Nel secondo caso il percorso sarà più in salita. Nel primo invece le persone hanno avuto il tempo e l’occasione di incontrare un mondo alternativo a quello da cui provengono e alcuni cambiamenti sono già avviati. Capita per esempio che siano i padri giovani a opporsi alle mutilazioni sulle bambine”. Lo conferma Stella Okungbowa: “Vedo che la sensibilizzazione procede. Parte da noi, che siamo in Italia e abbiamo occasione di parlare, di fare domande, di dialogare. Comincia qui e raggiunge i nostri parenti che sono rimasti giù: noi possiamo aiutarli a dire basta. Al resto e al futuro penseranno i nostri figli”.