L'undicesimo film del regista, in attesa del dodicesimo - Pinocchio - che andrà diretto su Netflix, è un noir oscuro che regala una notevole gratificazione visiva e lascia basculare un rovello etico tra bugia e verità fino ad un granguignolesco sottofinale
La fiaba mostrificata, questa volta, non ha la pennellata romantica ma è molto sinistra e crudele. La fiera delle illusioni/Nightmare Alley, undicesimo film di Guillermo Del Toro, in attesa del dodicesimo – Pinocchio – che andrà diretto su Netflix, è un noir oscuro che regala una notevole gratificazione visiva e lascia basculare un rovello etico tra bugia e verità fino ad un granguignolesco sottofinale. Nel 1939 Stan Carlisle (Bradley Cooper) brucia la sua casa nel Midwest e giunge a piedi tra le baracche di un circo itinerante. Chiaramente forzuto e apparentemente perspicace, Stan accetta un lavoretto da giostraio e da tirapiedi del capo del carrozzone Clem (William Dafoe). Il patto tra i due è soprattutto nel mantenere sotto effetto di una perenne ubriacatura da metanolo il cosiddetto uomo bestia, attrazione sanguinolenta e seguitissima del circo. Stan non se lo fa chiedere due volte, anche perché quella potenza fisica e l’aria furbetta hanno ben altro da nascondere sia nel passato che nel futuro che sta per arrivare.
Stan, infatti, fa amicizia con la chiaroveggente del circo (Toni Collette) e il marito ubriacone Pete. I due, oltre ad aver rodato il numero della veggente tra il pubblico, hanno in repertorio un più sostanzioso e straordinario numero da fasullo mentalista, che Pete non esegue più in quanto molto provato dal bere. Guarda caso, quando Pete ha insegnato a Stan i trucchi del mestiere, chiede al ragazzo ulteriori bottiglie di alcool e Stan, non si capisce se consapevolmente o meno, gli passa il metanolo. Pete muore e Stan può mostrare di fronte all’irruzione dello sceriffo e dei suoi sgherri come utilizzare le doti da improvvisato mentalista per sventare la chiusura del circo e addirittura farsi una carriera che proseguirà scappando con Molly (Rooney Mara) a Buffalo in club sofisticati di ricchi signori dove bendato riconoscerà oggetti presi in mano dai clienti e ne leggerà intime fragilità e traumi reconditi. Insomma, quanto Stan bara o quanto offre di “vero” nel raccontare dettagli di vita presente e passata degli astanti diventa il motivo trainante di oltre un’ora e mezza di film, dopo l’oretta di “prologo” tra i tendoni.
Sarà una psicologa molto dark lady (Cate Blanchett) e un paio di clienti molto facoltosi che vogliono mettersi in contatto con i figli morti, a mettere a repentaglio la carriera oramai avviata e ricca di Stan. Nessuno si salva tra i personaggi di Nightmare Alley, tutti laidi approfittatori, assassini, ladri e traditori. Una mostruosità a livello morale che forse mai era stata così interiormente presente nel cinema di Del Toro, solito a mostrificare eccentriche morbose e magnetiche esteriorità dotandole di cuore e sentimento. L’unico vero mostro, del resto, risulta essere il neonato Enoch rinchiuso e ammirato in un barattolo in più occasioni che sembra fungere come da ellissi narrativa del film. Altro elemento a favore, come del resto sempre accade nella messa in scena del regista di origine messicana ma oramai icona hollywoodiana da tempo, è la creazione di un’atmosfera pienamente d’epoca (scenografa Tamara Deverell; direttore della fotografia Dan Laustsen), un’immersione in uno spazio/tempo ipnotico, ammaliante, senza possibilità di fuga (praticamente identici i percorsi chiusi circensi per recuperare l’uomo bestia e i corridoi in interni o le vie e le strade di Buffalo) che permette alla storia e alle dinamiche tra i personaggi di esporsi sempre oltre la misura del realismo, rinfocolando l’idea che Del Toro abbia sempre in mente un cinema di genere ancorato nella memoria del Novecento dove immergere continuamente spunti di un presente impossibile. Cooper, infine, da American Sniper in avanti non sbaglia più un colpo a livello attoriale.
La performance in Nightmare Alley è un turbine cupo e mefitico di eleganza sibillina e inquieto nascondere psicologico di un passato terrificante, che lascia dannatamente il segno. Non il miglior Del Toro (davanti rimangono ancora Il labirinto del fauno, Hellboy, La forma dell’acqua), ma un film che gareggia a occhi chiusi tra i migliori dieci titoli degli ultimi due anni.