Trent’anni fa si arrivò al grande compromesso del trattato di Maastricht, la cui firma cambiò per sempre la Comunità Economica Europea (CEE); in quel 7 febbraio del 1992 si fondava l’Unione europea, più o meno come appare ancora oggi.
Ricordare quel passaggio storico è fondamentale per meglio comprendere l’Europa e l’Italia di quegli anni: un mondo appena uscito dalla guerra fredda in cui gli equilibri internazionali si stavano rimodulando. Non a caso, gli anni Novanta rappresentano il periodo storico in cui si prende seriamente in considerazione l’allargamento ad Est degli stati membri.
In Italia stavano per compiersi gli attentati di mafia a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e proprio in quel febbraio scoppiava lo scandalo di Mani Pulite. Un’Italia in subbuglio che dopo qualche anno ha visto l’inizio dell’era berlusconiana. Eppure, proprio il governo italiano a guida Giulio Andreotti come primo ministro, Gianni De Michelis come ministro degli esteri e Guido Carli al tesoro ha dato un impulso importante per la riuscita di quelle complicate negoziazioni.
In secondo luogo, ricordare Maastricht significa comprendere le premesse con cui nasce un’Unione non solo monetaria, con l’euro e il mercato unico, ma anche un’Unione politica che aveva come obiettivo quello di creare un’Europa più unita e integrata.
Nascono così i tre pilastri fondamentali dell’Ue: il primo si fonda sulle Comunità europee, che ingloba diverse competenze, alcune delle quali erano l’unione monetaria, il mercato unico, l’unione doganale, ma anche la cittadinanza dell’Ue, un’autentica novità per il diritto comunitario. Il secondo pilastro riguardava la politica estera e di sicurezza comune, mentre il terzo istituiva una più stretta cooperazione in ambito di giustizia e affari interni.
La fondazione delle premesse per adottare l’euro segnava un punto epocale nella storia dell’integrazione europea: nasceva la Banca Centrale Europea (BCE) e una maggiore cooperazione tra le banche centrali nazionali, parallelamente alla graduale introduzione della moneta unica. Correlati all’introduzione di quest’ultima, venivano posti i primi vincoli-compromesso per l’adesione alla stessa, come i limiti del superamento del tasso di inflazione, i livelli del debito pubblico, la percentuale dei tassi di interesse e la stabilità del tasso di cambio.
Questa Unione più sovrana, la quale pone dei vincoli, creò diversi malumori più evidenti nei confronti del progetto europeo, che in nuce aveva già attirato critiche negli anni precedenti. Altri, che volevano andare oltre quell’accordo, sono rimasti delusi dalla creazione di un’architettura monetaria incompleta, che non prevedeva coordinamenti su altre politiche economiche, con rischi che all’inizio del nuovo secolo si sono puntualmente avverati.
Sintetizzando: i nazionalisti più convinti di stampo thatcheriano, che consideravano l’erosione della sovranità nazionale il male assoluto, e i federalisti che vedevano in Maastricht un potenziale progetto di unione federale, simile al modello americano, rimasero estremamente delusi.
Ma nonostante questi fisiologici malumori, Maastricht è considerato un successo per i protagonisti di quelle negoziazioni, che in larga parte un’Unione più politica e unita, con la possibilità di sussumere maggiori competenze degli stati nazionali, l’hanno voluta. In primis l’Italia, i cui leader del tempo erano convinti che il trattato di Maastricht avrebbe avuto un effetto benefico sul paese.
Tuttavia, l’eredità di quel trattato può essere riassunta in due punti fondamentali delle cui esperienze negative stiamo facendo esperienza: l’incompleta architettura monetaria e la mancanza di una politica estera e di sicurezza unica.
La moneta senza una politica fiscale unica ha portato all’adozione a una serie di misure che hanno sempre risolto, in maniera controversa, alcuni dei problemi economici del continente nel breve periodo, soprattutto negli anni successivi alla crisi del 2008. Si intendono, per esempio, il patto di stabilità istituito nel 1997, al centro del dibattito post-crisi economica, il quale definisce le norme che mirano a prevenire le conseguenze negative delle politiche di bilancio e a correggere i bilanci o gli oneri del debito pubblico che risultano eccessivi. In sostanza, dei requisiti da rispettare per far parte o aderire alla zona euro.
Da non scordare ovviamente gli accordi internazionali al di fuori dei trattati Ue, come il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) e il Fiscal Compact, entrambi istituiti nel 2012. Il primo è un meccanismo di assistenza finanziaria ai paesi membri con un debito pubblico sostenibile ma in temporanea difficoltà nel finanziarsi sul mercato. Il secondo prevedeva vincoli economici comuni con l’obiettivo di contenere il debito pubblico nazionale dei paesi che vi aderivano, cercando di garantire il principio dell’equilibrio di bilancio. Tutti meccanismi che, per esempio, con una politica fiscale unica redistributiva, probabilmente non sarebbero stati necessari.
Come detto sopra, l’altro compromesso che non accontentò molti fu quello intergovernativo: veniva fondato ufficialmente il Consiglio europeo e il voto all’unanimità. A trent’anni di distanza, molte delle questioni europee sono passate alla procedura legislativa ordinaria, per cui il voto all’unanimità in sede di Consiglio è rimasto solamente in alcuni ambiti specifici, tra cui la politica esterna e di difesa.
Questa eredità di Maastricht è pesantemente presente: lo possiamo vedere in questi giorni con la politica estera Ue, estremamente frammentata e poco risolutiva. Ne sono stati un emblema il caso afghano scoppiato lo scorso agosto, dove l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell parlava alla stampa di possibili interventi dell’Ue con accordi tra gli stati al di fuori dei trattati. Lo vediamo in questi giorni con la crisi ucraina, dove sono i singoli capi di stato degli stati membri, come Francia e Germania, che si recano a Mosca per discutere con il presidente Vladimir Putin, mostrando un’Ue divisa ed esautorata della propria sovranità nelle sfide globali.
Lo stesso Next Generation Eu, finanziamenti a fondo perduto e prestiti messi a disposizione dalle risorse proprie dell’Ue per aiutare gli stati membri ad affrontare la pandemia, può essere definito come un importante passo in avanti, non esplicitamente istituzionalizzato nei trattati, rispetto alle questioni non superate a Maastricht.
In questo giorno di anniversario è necessario dunque riflettere sugli aspetti istituzionali farraginosi di questa Ue nata a Maastricht e sui benefici che lo stesso trattato ha portato ai cittadini europei, i quali, ai giorni nostri, dovrebbero essere più coinvolti nei dibattiti sulla natura istituzionale dell’Ue e sul suo funzionamento.
In questi mesi, senza troppo clamore mediatico, l’Ue sta portando avanti la Conferenza sul Futuro dell’Europa, un tentativo delle istituzioni di coinvolgere i cittadini Ue nel processo legislativo delle stesse. Per far sì che questo esperimento democratico funzioni, i cittadini devono appropriarsi di questo evento, creando uno spazio in cui è possibile stendere le linee guida del futuro dell’Ue, che vadano a modificare ciò che nel Trattato di Maastricht è rimasto incompiuto.
Per l’elaborazione di tale intervento si ringrazia Lorenzo Vai, dottorando in Studi Politici presso l’Università Sapienza, per lo scambio proficuo di idee e riflessioni sull’Europa e l’Italia degli anni Novanta