Sono trascorsi nove anni da quando Benedetto XVI, con una scelta autonoma e sconvolgente, decise di dimettersi. Il tempo dell’emeritato ha già superato quello del pontificato segnando così, almeno finora, la coabitazione in Vaticano tra il Papa regnante, Francesco, e il suo immediato predecessore che si appresta a compiere 95 anni il 16 aprile 2022. Un tempo segnato da un silenzio, per Benedetto XVI ritiratosi nel Monastero Mater Ecclesiae all’interno dei Giardini Vaticani, rotto ogni tanto da alcuni importanti interventi la cui ampiezza è inevitabilmente diminuita con il trascorrere degli anni e la conseguente riduzione delle forze fisiche. Un periodo, quello dell’emeritato, segnato da luci e ombre, da incidenti per lo più causati dalle opposte tifoserie papali che hanno ripetutamente e invano cercato di accreditare una contrapposizione accesa tra l’inquilino più illustre del solitario Monastero Mater Ecclesiae e quello della più movimentata Casa Santa Marta.
Luci e ombre che recentemente sono state alimentate anche dal rapporto sulla pedofilia del clero dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga che fu retta soltanto per quattro anni, dal 1977 al 1981, dall’allora cardinale Joseph Ratzinger. Indagine che ha puntato il dito anche contro l’episcopato del Papa emerito accusato di negligenza nella gestione di quattro casi. Accuse che Benedetto XVI ha immediatamente respinto con forza ripromettendosi di rispondere, come poi ha fatto, con maggiore precisione una volta letta la parte del rapporto che lo riguarda.
“Ancora una volta – si legge nella replica di Ratzinger – posso solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono. Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi. Ogni singolo caso di abuso sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime degli abusi sessuali va la mia profonda compassione e mi rammarico per ogni singolo caso”.
È interessante che il suo fedelissimo segretario particolare, monsignor Georg Gänswein, che è anche prefetto della Casa Pontificia, abbia dato alle stampe in Italia un volume che raccoglie alcuni suoi scritti, tutti successivi alle dimissioni di Ratzinger. Si intitola Testimoniare la verità (Ares) ed è una lettura imprescindibile per chi vuole ripercorrere la storia recente della Chiesa cattolica. Il presule, infatti, si sofferma a lungo non solo sulla rinuncia di Benedetto XVI, ma anche sulla sua elezione al papato nel 2005 dopo la morte di Karol Wojtyla.
Dal 2003 monsignor Gänswein è accanto a Ratzinger in qualità di segretario particolare e la sua testimonianza del cardinale decano prima, del Papa poi e, infine, del Papa emerito, è sicuramente privilegiata nonché autorevole. “Dall’11 febbraio 2013 – scrive il presule – il ministero papale non è più quello di prima. È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d’eccezione”.
Monsignor Gänswein torna indietro con la memoria al conclave dell’aprile 2005 “dal quale Joseph Ratzinger, dopo una delle elezioni più brevi della storia della Chiesa, uscì eletto dopo solo quattro scrutini a seguito di una drammatica lotta tra il cosiddetto ‘Partito del sale della terra’ (Salt of Earth Party), intorno ai cardinali López Trujillo, Ruini, Herranz, Rouco Varela, Medina, e il cosiddetto ‘Gruppo di san Gallo’, intorno ai cardinali Danneels, Martini, Silvestrini, Murphy-O’Connor; gruppo che, di recente, lo stesso cardinal Danneels di Bruxelles in modo divertito ha definito come ‘una specie di mafia-club'”.
Per il presule “l’elezione era certamente l’esito anche di uno scontro, la cui chiave quasi aveva fornito lo stesso Ratzinger da cardinale decano, nella storica omelia del 18 aprile 2005 in San Pietro; e precisamente lì dove a ‘una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie’ aveva contrapposto un’altra misura: ‘Il figlio di Dio e vero uomo’ come ‘la misura del vero umanesimo’”.
Il segretario di Benedetto XVI sottolinea, inoltre, che “già il nome che il nuovo Papa si diede subito dopo la sua elezione rappresentava perciò un programma. Joseph Ratzinger non divenne Giovanni Paolo III, come forse molti si sarebbero augurati. Si riallacciò invece a Benedetto XV, l’inascoltato e sfortunato grande Papa della pace degli anni terribili della Prima guerra mondiale, e a san Benedetto da Norcia, patriarca del monachesimo e patrono d’Europa. Potrei comparire come superteste per testimoniare come, negli anni precedenti, mai il cardinal Ratzinger aveva premuto per assurgere al più alto ufficio della Chiesa cattolica. Già sognava, invece, vivamente una condizione che gli avrebbe permesso di scrivere in pace e tranquillità alcuni, ultimi libri. Tutti sanno che le cose andarono diversamente”.