Giovedì 3 febbraio ho partecipato alla presentazione del rapporto Ecomafia 2021. Nonostante siano anni che approfondisco, ancora oggi i dati e le considerazioni presentati sono stati agghiaccianti.
Il presidente di Legambiente Piemonte ha sintetizzato questi numeri agghiaccianti:
1) In Italia nel 2020 sono stati accertati 34.867 reati ambientali, con una media di oltre 95 reati al giorno, 4 ogni ora.
2) Aumentano le persone denunciate: 33.620 (+12% rispetto al 2019), le ordinanze di custodia cautelare eseguite 329 (+14,2%), i sequestri effettuati 11.427 (+25,4%), ma cala il numero complessivo dei controlli (-17%) rispetto al 2019.
3) È’ sempre alta l’incidenza dei reati ambientali accertati nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Sicilia, Campania, Puglia e Calabria), esattamente 16.262, il 46,6% del totale nazionale, con 134 arresti, mentre nel 2019 erano stati “soltanto” 86.
4) Preoccupante anche il numero dei comuni commissariati per ecomafia sino a oggi, ben 32, dei quali 11 sono stati sciolti nei primi nove mesi del 2021.
Il convegno vedeva la presenza della sostituta procuratrice alla Direzione Distrettuale Antimafia di Torino, comandante del Nucleo Operativo Ecologico di Torino, comandante Nucleo Investigativo di Polizia Forestale, Ambientale e Agroalimentare di Torino e dell’ex procuratore capo di Torino e di Palermo Gian Carlo Caselli. Che bello sentire alti funzionari pubblici così appassionati del loro lavoro. Abbiamo seguito i risultati di indagini recentemente svolte e i risultati delle stesse cosi come un report delle attività svolte in Piemonte. Gian Carlo Caselli con la sua esperienza ha parlato degli strumenti di legge per contrastare la criminalità in particolare delle agromafie.
Io ho parlato dell’esperienza di Ase nel Gargano del 2020 che è ancora in corso e di Leonia a Reggio Calabria nel 2012.
Di fronte ad un uno scenario dove la criminalità organizzata non mette più bombe o compie solo efferati crimini, esiste una sotterranea e sconosciuta distruzione del nostro ambiente da parte di soggetti senza scrupoli. Anche questo porta morte e dolore, spesso in silenzio. Sono loro gli ecomafiosi, protagonisti del rapporto.
I dati numerici sono allarmanti, ma non sempre rendono bene l’idea ad un cittadino di cosa sia il danno ambientale. Voglio provare a darne una rappresentazione.
Tutti conoscono il nome di Seveso. Addirittura la direttiva europea sull’inquinamento industriale porta il nome del villaggio lombardo. Pensavo fosse il più grave incidente industriale italiano. Una nube di diossina che avvelenò e che lasciò tracce nelle persone per decenni.
Con sorpresa ho scoperto recentemente che anche a Manfredonia si visse una situazione identica a quella di Seveso, con due sostanziali differenze: da una parte non è stata portata sotto i riflettori nazionali, come se queste fossero terre di un Dio minore, dall’altra i danni rispetto a Seveso sono maggiori in quanto amplificati da ritardi e inadeguate bonifiche del sito contaminato.
Chiamato nel 2020 dallo Stato a Manfredonia per gestire la società di servizi di igiene urbana, Ase, ho scoperto dai racconti di alcuni pescatori, in una calda sera autunnale, che lo stesso Stato con sciagurata scelta aveva permesso la costruzione di uno stabilimento chimico alle porte di Manfredonia negli anni 70 con l’illusione che anche questo territorio potesse giovarsi del boom economico. La prima assurdità è che sebbene lo stabilimento chimico fosse a poche centinaia di metri dal centro di Manfredonia, ricadeva sul territorio del comune limitrofo, Monte Sant’Angelo, comune distante 14 km e sulle roccaforti del Gargano: e sembrerebbe essere questo anche uno dei motivi di uno scarso interesse alla bonifica poiché gli effetti nocivi non sono ricaduti sulla cittadinanza dove aveva la sede l’azienda ma su quello vicino che ne era formalmente titolare…
Dalle parole di questi pescatori, che ascoltavo per conoscere la realtà del posto dove ero stato chiamato dalla Istituzioni, venivo a sapere che proprio in una domenica autunnale del 1976, cioè pochi mesi dopo Seveso la città fu scossa da un’esplosione proveniente dagli stabilimenti dell’Anic, Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili, ossia l’azienda petrolchimica dell’Eni, con l’improvvisa fuoriuscita di una nube bianca. Nube che fece ricadere sula città una sorta di neve polverosa con cui i bambini giocavano incuriositi e che tranquillamente le persone calpestavano portandola a casa nelle suole delle scarpe (particolare inquietante che mi ha ricordato i racconti della polvere d’amianto a Casale Monferrato).
Quella nube era veleno che ricadeva sulla città.
Oltre 10 tonnellate anidride arseniosa si depositarono sul territorio di Manfredonia e Monte Sant’Angelo.
Inizialmente la cosa venne vissuta senza dargli importanza ma ben presto numerosi furono i casi di intossicazione che riempivano gli ospedali della città accompagnati dalla strage degli animali da cortile che morivano tra lancinanti strazi.
Il giorno successivo all’esplosione la fabbrica si riempì come nulla fosse e gli operai a mani nude iniziarono a recuperare quanto si poteva. Non ci furono morti dirette, ma l’arsenico era entrato nel ciclo alimentare.
Anni dopo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, effettuando uno studio di mortalità sulla popolazione nel periodo 1980-87, rilevò eccessi di tumori dello stomaco, della prostata e della vescica tra i maschi e della laringe, della pleura nonché di mieloma multiplo tra le donne. All’inizio degli anni 80 per giustificare l’aumento delle neoplasie, alcuni seri professionisti non ebbero vergogna a dire che si trattava di una naturale conseguenza della dieta a base di crostacei della città marinara… aragoste e scampi.
Ciò che più mi ha sorpreso è appunto il silenzio in Italia su questa vicenda. Io non ne sapevo niente ed ho cominciato a documentarmi. Ho scoperto che per molto tempo è stato difficile trovare materiale in proposito e solo grazie alla diffusione di internet e di una informazione indipendente, oggi si possono avere notizie su quei eventi (tra cui un ottimo articolo sul blog del Fatto Quotidiano a firma di Andrea Tundo).
Questa tragica esperienza può farci intuire quanto sia subdolo il danno ambientale: non si vede subito, ma risale lentamente dalle viscere della terra per entrare ovunque con le sue velenose proliferazioni, ammorbando tutto ciò con cui viene in contatto.
Il nemico invisibile e sotterraneo è il peggior nemico e ognuno deve combatterlo con i propri mezzi. In questo convegno sulle Ecomafie ho raccontato come lo combatto io. Ho portato la mia testimonianza sulla gestione delle aziende pubbliche in contesti di scioglimento per criminalità organizzata. Ho parlato degli strumenti tecnici che adopero in questi contesti per depistare il malaffare, nei bilanci, nelle procedure, nell’organizzazione. Di cosa leggo nei bilanci delle aziende quando vi entro facendo alcuni esempi e degli strumenti che adotto per lasciare in eredità alla futura gestione aziendale regolamenti e procedure corrette.
Quindi oltre alle regole necessarie per una corretta e sana gestione economica e patrimoniale di una struttura societaria, l’azienda pubblica deve essere una sorta di casa dalle pareti di vetro dove dall’esterno si possa vedere cosa avviene all’interno. Non solo trasparenza ma anche comunicazione dei risultati e della missione pubblica aziendale.
Ritengo che nella società di oggi occorra lavorare comunicando i vantaggi che la legalità e la sostenibilità comportano; facendo conoscere come le ecomafie brucino le nostre terre per poi rovinare la salute di tutti indifferentemente.
Ringrazio gli amici di Legambiente e di Libera che da anni svolgono questo lavoro che sviluppa sempre più la consapevolezza della cittadinanza al rischio ambientale. Li ringrazio soprattutto perché permettono di portare alla luce un impegno che si esplica in ore passate dietro ad una scrivania in un ufficio lontano dalla propria famiglia, con il rischio di trovarsi brutte sorprese, ma anche fiduciosi che un giorno ci sentiremo dire: “Ben scavato, vecchia talpa”.