Paolo Sorrentino potrebbe fare il bis dopo l’Oscar 2014 per La grande bellezza. Il primo passo è fatto: per ora è solo neo-candidato al 2022 per il miglior film in lingua straniera con È stata la mano di Dio. Lo hanno annunciato ufficialmente, sul sito dell’Academy, gli attori Leslie Jordan e Tracee Ellis Ross. Sorrentino, però, dovrà vedersela con (almeno) quattro grandissimi concorrenti. Il suo destino lo conosceremo durante l’attesa notte tra domenica 27 e lunedì 28 marzo (spostata di alcuni giorni rispetto alla consuetudine per via del Super Bowl e delle Olimpiadi invernali di Pechino).

Ovvio che il regista napoletano abbia dichiarato d’essere “felicissimo di questa nomination”. “Per me è già una grande vittoria”, ha detto appena saputo della notizia: “un motivo di commozione, perché è un riconoscimento prestigioso ai temi del film, che sono le cose in cui credo: l’ironia, la libertà, la tolleranza, il dolore, la spensieratezza, la volontà, il futuro, Napoli e mia madre”.

Già Leone d’argento alla scorsa mostra del cinema di Venezia, È stata la mano di Dio (anche su Netflix) è il film cui il regista napoletano è maggiormente affezionato trattandosi, di fatto, della sua autobiografia. Stavolta non sarà presente accanto a lui Antonio Capuano, oggi 81enne, visceralmente legato a Sorrentino che ha dichiarato come suoi numi tutelari Fellini, Maradona e proprio Capuano; il quale, oltre che fungere da mentore del regista, compare ne È stata la mano di Dio interpretato – come in una sorta di paronomasia – da Ciro Capano.

Sorrentino è Fabietto, interpretato dal bravissimo (quasi) esordiente Filippo Scotti, che perde i genitori per una intossicazione da monossido di carbonio: ha solo 17 anni, ma – è stata appunto la mano di Dio – quel giorno non è lì perché non vuol perdersi la partita fra Napoli ed Empoli con Maradona nella sua strepitosa stagione partenopea. La sceneggiatura è ricca di eventi affascinanti: i surreali incontri sessuali della agognata zia Patrizia, una Luisa Ranieri a dir poco strepitosa (persino con San Gennaro in persona), ma che finirà in una triste camera di un ospedale psichiatrico; le peripezie familiari del padre (Toni Servillo) che, pur amando teneramente la moglie, vive una storia d’amore con una collega con la quale fa un figlio nascosto per anni.

E ancora l’amicizia curiosa fra Fabietto e un contrabbandiere; le infinite ipotesi sull’ acquisizione di Maradona da parte del Napoli; il fratello di Fabietto che tenta inutilmente di far l’attore, provinato da Fellini (del Maestro si sente la voce, imitata); l’iniziazione sessuale del ragazzo, ancora vergine, grazie a un’anziana baronessa. E i personaggi clowneschi come il fidanzato zoppo di una grassa parente che parla meccanicamente con la macchinetta dei tracheotomizzati appoggiata al collo. Infine, i dialoghi di Fabietto in crisi (“La realtà non mi piace più”) con Capuano e i suoi agguerriti consigli per la carriera: “A tieni ‘na cosa da cuntà? E dimmella…”.

Insomma, un film sulla vita che, grazie a Sorrentino, ha riportato l’Italia in una dimensione esistenziale internazionale, cinematograficamente parlando: ci sono stati prima (molto prima…premi speciali esclusi) gli Oscar a La strada e a Le notti di Cabiria di Fellini (addirittura due anni consecutivamente, nel ’57 e nel ’58). Ancora Fellini vince nel ’64 con 8 ½ e De Sica l’anno successivo con Ieri oggi e domani. Poi ancora una doppietta (’71 e ’72) con il grandissimo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri e con Il giardino dei Finzi Contini di De Sica. Nuovamente Fellini nel ’75 con il capolavoro Amarcord. Poi buio fino al ’90 quando vince Tornatore con Nuovo cinema Paradiso. E Mediterraneo (’92) di Salvatores. Sette anni dopo è la volta di Benigni (nel ’99) con La vita è bella. Ci vorranno ben 15 anni per giungere a un Oscar tricolore, con Sorrentino e la sua Grande bellezza (2014).

A saper leggere questi dati, interpretare queste cronologie, si possono capire molte cose dei tortuosi percorsi del cinema italiano, le sue crisi, la sua mancanza di prodotti di respiro internazionale, il suo rifugiarsi o in temi politicamente corretti con scarsa presa al di là delle Alpi o in ripetitive storie generazionali.

Ma analizziamo nello specifico chi dovrà affrontare ora Sorrentino: Drive my car di Ryūsuke Hamaguchi (in concorso allo scorso Cannes) dall’omonimo racconto di Haruki Murakami, un film di quasi tre ore, affascinante quanto complesso; Un eroe dell’iraniano Asghar Farhadi, già Gran Prix della Giuria alla Croisette, storia di uomo che si autocondanna all’onestà; il norvegese La persona peggiore del mondo di Joachim Trier, vicenda una donna perennemente insoddisfatta dalla vita; e Scomparimento N. 6 – In viaggio con il destino (russo-finlandese), sorta di road-movie o meglio binario-movie di Juho Kuosmanen con uno strano, inatteso incontro. Tutti ottimi film.

Del resto, le produzioni italiane degli ultimi anni presentabili a un Oscar sono state minime. Un premio, l’Oscar, che non rappresenta certo il Sublime Artistico: si pensi che Stanley Kubrick ha ottenuto solo un un premio tecnico per gli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio; Chaplin candidature e due Oscar onorari, ma nessun suo film premiato; come pure Orson Welles, solo un Oscar per la sceneggiatura di Quarto Potere, pluri-candidato mai vincente, e un premio alla carriera nel ’70. Ma resta un premio che esige il superamento del provincialismo. Meno male che c’è Sorrentino.

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