di Serena Verrecchia
Dove approdano i leader scomodi, quelli ingombranti, che nessuno vuole perché ti costringono ad alzare l’asticella dell’etica pubblica e ad abbassare i dispositivi di sicurezza contro quella malattia rara che è l’onestà? Che fine fanno i leader amati dal popolo e vituperati da tutto il resto? Dove vanno a finire, in quale buco bisogna infilarli perché se ne stiano buoni, obbedienti e inoffensivi?
Quella di Giuseppe Conte è la formalizzazione della leadership più lunga che si sia mai vista nella storia recente di questo paese. Persino la cosa che ci era sembrata più normale – e cioè che l’ex premier, una volta cacciato dal Palazzo, assumesse naturalmente la guida di un ammaccato M5S – si è trasformata in un travaglio, in una silenziosa guerra di logoramento che ha sfiancato un’intera comunità e tolto un tempo di gioco a chi avrebbe potuto incidere di più portando avanti una serie di battaglie decisive per il nostro paese.
La lunga traversata di Conte ha avuto inizio quasi un anno fa, in quell’hotel Forum di Roma in cui i vertici del M5S decisero di affidargli un Movimento in agonia con la speranza che potesse resuscitarlo e rilanciarlo. Se l’ex premier non avesse accettato, il M5S sarebbe stramazzato al suolo e diventato un pelo superfluo del già variegato panorama di forze politiche. Ma Conte si assunse l’impegno, con una sola preghiera: con Davide Casaleggio risolvetevela voi. Impossibile. Tre mesi di guerre ai cavilli e ai tecnicismi che hanno di fatto impedito che l’avvocato assumesse la leadership. Poi è stata la volta di Beppe Grillo, del suo dietrofront, della bocciatura e delle umiliazioni pubbliche, mentre sull’altro fronte c’era chi gongolava e si compiaceva. E via con il logoramento interno fino all’ultima prova muscolare, quella di Luigi Di Maio, che poi ha parlato di dialettica interna ma esibendola davanti ai megafoni della stampa.
L’impressione è che Giuseppe Conte sia effettivamente troppo ingombrante, perché è uno che se lo metti in un posto e gli affidi un compito, lui poi non si accontenta della forma ma dedica anima e corpo alla sostanza. E infatti la sua lunga e travagliata traversata non è cominciata neanche l’anno scorso, ma molto tempo prima, quando – chissà perché – si era intestardito con quell’idea folle di voler fare per forza con la politica quello che si fa con le cose alte e onorevoli: maneggiarla con responsabilità e metterla al servizio della gente. Dopo tanti affronti e mortificazioni – si è parlato di recente di “perquisizioni” e amici indagati per cercare di cavarci fuori una macchia (o anche la semplice idea di una macchia) – nessuno lo biasimerebbe se facesse le valigie e salutasse tutti.
Conte non si è mai servito del consenso personale – che pure è il più alto tra tutti i politici italiani – per sbattere le porte e andare per la sua strada. Non ha mai messo al primo posto il proprio destino personale, al contrario è stato lucido e paziente anche nei frangenti più delicati e spossanti. E lo è anche adesso che gli hanno sospeso la leadership e tolto un altro, decisivo tempo di gioco. Ma è chiaro che c’è un coagulo di potere che non può permettersi di avere uno come Conte tra i piedi. Per cui la lunga traversata di un leader gentile può approdare ovunque fuorché nell’unico posto dove troverebbe consenso vero: tra la gente.