Meta minaccia di far sparire Facebook, Whatsapp e Instagram dall’Ue se non può trattare dati di cittadini europei sui propri server, comodamente dislocati negli Stati Uniti. In verità, ci siamo già passati da questo incubo. Era lo scorso ottobre 2021 quando le piattaforme più popolari del web hanno smesso di funzionare in contemporanea. Un lungo, interminabile pomeriggio di silenzio, durante il quale abbiamo vissuto, seppur impreparati, un’anticipazione di quanto ultimamente sembrerebbe aver paventato Mark Zuckerberg con il suo annuncio, poi parzialmente smentito o, quanto meno, precisato meglio.

La ragione di un eventuale blocco, in questo caso, non sarebbe più ovviamente da ricercare in un “problema tecnico”, come successo in occasione del social down dello scorso ottobre, ma in una presa di posizione da parte del colosso americano nei riguardi delle stringenti politiche di gestione dei dati personali del vecchio continente, anche in osservanza della nota sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia il 16 luglio 2020 (c.d. “Sentenza Schrems II”) in merito al regime di trasferimento dei dati tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, la quale ha invalidato la decisione di adeguatezza del Privacy Shield, rendendo molto più stringenti e – in alcuni casi – difficilmente applicabili le regole di trasferimento extra Ue dei dati personali dei cittadini europei. Ma il discorso è molto più complesso rispetto a ciò che appare e che è emerso nei primi commenti dei tanti esperti.

La lettura più semplice e immediata della questione è che l’attuale scontro in atto sia l’ennesima dimostrazione di quanto una parte della nostra esistenza dipenda ormai dagli spazi digitali che consideriamo, sbagliando, di nostra “proprietà”, ma che in realtà si poggiano su algoritmi che sfuggono al nostro controllo e la cui gestione ricade da tempo nelle mani di un novero di big player, i cd. GAFAM. E che Meta non voglia – a causa della normativa dell’Ue e delle decisioni della sua Corte – imbrigliare un business che ha coltivato pazientemente nel tempo è ormai palese. Del resto, come è noto, il suo impero è poggiato da tempo sui nostri dati.

Lettura questa che ci sta tutta e che conferma i timori dell’ex Garante Europeo Giovanni Buttarelli che più volte ci ha ricordato, prima di venire a mancare nell’agosto del 2019, come “l’attuale ecosistema digitale si fondi proprio sullo sfruttamento intensivo e indiscriminato delle informazioni e dei dati personali e che la struttura dei mercati” – su cui si sviluppano gli OTT come Meta – “è andata convergendo in questi anni verso situazioni di quasi-monopolio, decretando l’accrescimento esponenziale del potere di mercato di pochi, ma potentissimi, attori privati. Il risultato è il consolidamento di un modello di business basato sulla profilazione e finanche manipolazione delle persone”.

Sempre secondo Buttarelli, l’unico modo per arginare questo strapotere sarebbe stato confidare in un intervento coordinato delle autorità della protezione dei dati, della protezione dei consumatori e della concorrenza. E non possiamo non osservare come in questi ultimi anni in modo spontaneo siano intervenute diverse Authority a livello europeo (dal Garante spagnolo a quello francese sino alla Agcm italiana) a “bacchettare” Facebook per attività di trattamento poco lecite con sanzioni di diversi milioni di euro. Insomma, il “fastidio” di Meta è piuttosto comprensibile.

Del resto, la normativa che governa la protezione dei dati personali dei cittadini europei si occupa di tutelare nostri diritti e libertà fondamentali, cercando di operare un bilanciamento tra i diversi interessi in gioco. Ed è innegabile come le aspirazioni di Zuckerberg, di sviluppare un metamondo teoricamente decentrato dove far sprigionare “liberamente” i nostri avatar, cozzino non poco con la presenza di Authority di garanzia che invece applicano con rigore normative nazionali ed europee. E, come più volte riferito, ormai lo spazio social ha perduto da tempo le sue fattezze di spazio privato e ormai si presenta come ordinamento a parte, un metamondo appunto che vuole dettare le sue regole, non sempre a garanzia dei suoi utenti, ma più che altro atto a favorire un business sempre più smisurato.

Il problema è che però la politica nazionale ed europea in tutti questi anni è rimasta più che altro a guardare, ha anzi con la sua indifferenza facilitato questo processo di business basato sulla mercificazione della nostra esistenza, arrivando anche a dialogare, o peggio “fare affari”, con i suoi potenti attori che ormai sono gli unici a garantire efficienza ed efficacia a tutte le azioni digitali che ci riguardano, attraverso gigantesche infrastrutture tecnologiche di cui solo loro dispongono.

La verità è che oggi si ha la sensazione che l’Europa, non potendo fare affidamento su sistemi e infrastrutture digitali di dimensioni adeguate a servire in modo affidabile cittadini, imprese, organizzazioni pubbliche, difficilmente potrà davvero rischiare di costringere Meta (o chiunque altro) a chiudere il suo business perché non adeguato alla sua stringente (e corretta) normativa di protezione dei dati personali. Insomma, si ha la spiacevole sensazione di assistere a un triste teatrino nel quale, alla fine, nessuna delle parti metterà davvero in pratica ciò che minaccia di fare. E restiamo noi cittadini spettatori inermi di problemi che non riguardano più solo la “privacy”, ma davvero molto, molto altro.

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