Quel giorno che il cinema ci salvò. Sembra basarsi su questa frase qui inventata il 72° Festival di Berlino (10-16 febbraio), così fortemente voluto “in presenza” dagli organizzatori, nonostante le note difficoltà, da suscitare una certa emozione. Perché se è vero che in “era Covid” hanno preso forma già due edizioni della Mostra veneziana e una del Festival di Cannes, la situazione berlinese – invernale e con un altissimo numero di contagi in Germania – è un’altra faccenda, tale per cui molti degli operatori la pensavano dirottata allo streaming del last minute. E invece il Bundesregierung ha appoggiato il coraggio della governance della Berlinale, specie dei suoi direttori Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek, riformulando un’edizione ridotta nei giorni, ma non nel numero di film, in cui la parola d’ordine è di certo “in sicurezza”.
Che la scommessa sia vinta è ancora da dimostrarsi, ma le premesse del primo giorno fanno ben sperare: la macchina di Berlinale sembra funzionare alla perfezione, con hub di tamponi gratuiti ad ogni angolo di strada (obbligatori ogni 24h per le attività della stampa), una piattaforma agile per la prenotazione delle proiezioni, e i QR code a regnare sovrani per ogni circostanza. Un festival a prova di 2G (minimo di dosi vaccinali indispensabile all’accesso) che ora, però, deve mostrarsi all’altezza dell’arte cinematografica messa in programma.
Dunque, e a maggior ragione, ripetiamo: quel giorno che il cinema ci salvò. Perché l’apertura del festival e del concorso ufficiale affidata alla meta-cinefilia che omaggia il genio di Rainer Werner Fassbinder era sulla carta la risposta più sensibile e coraggiosa, specie in patria. Virato rispetto all’originale del 1972 sull’omosessualità maschile, che del resto è dichiaratamente incarnata da François Ozon che ne firma la regia, Peter von Kant è di certo la sfida più rischiosa e dissacrante intentata dal cineasta parigino dell’intera sua carriera. Toccare il sacro senza profanarlo: un’impresa quasi impossibile. Per questo Ozon, che da tempo era ossessionato dal mondo di Fassbinder, cerca e trova parzialmente una via di fuga: oltre alla svolta gender, trasforma la stilista di successo Petra nell’osannato e talentuoso regista cinematografico Peter – che di fatto “diventa” Fassbinder stesso anche per somiglianza fisica (in tal senso è straordinario l’attore Denis Ménochet) – e con lui tutto il suo universo umano dentro a un Kammerfilm (o Kammerspiel basandosi notoriamente sulla piéce teatrale dello stesso RWF) che muta da femminile a maschile. “Non ho voluto aggiornare la vicenda, perché amo gli anni ’70” ha sottolineato Ozon alla conferenza stampa berlinese, reagendo a chi supponeva che una riedizione di questo immortale capolavoro potesse almeno rivivere ai nostri giorni.
Con alcuni elementi rimasti intatti (fra questi la commovente presenza della musa di RWF, Hanna Schygulla, qui nei panni della madre dopo aver interpretato l’indimenticabile Karin), una bella scenografica vintage, alcuni momenti struggenti e cinematograficamente rilevanti, la “riduzione” (anche di durata, essendo solo 90’ rispetto ai 124’ de Die bitteren Tränen der Petra von Kant) operata da Ozon ha una sua dignità in quanto accosta al “verbo” di Fassbinder sull’umana sorte e sul dolore estremo anche una riflessione sul cinema stesso, e tuttavia non impedisce di suscitare la domanda di fondo: perché?
A cercare una risposta sarà anche la giuria internazionale guidata dall’immaginifico regista indo-statunitense M. Night Shyamalan, da oggi impegnata nel non facile lavoro di condensare le visioni di 18 concorrenti in 6 giorni.