Scuola

La filosofia negli istituti tecnici non è una concessione, ma una necessità

di Ilaria Muggianu Scano

“Porteremo la filosofia negli Istituti tecnici” prometteva in principio d’autunno il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, nell’ottica della maxi riforma delle Scuole Secondarie di secondo grado, prevista dal Pnrr. Secondo il cronoprogramma degli uffici di viale Trastevere, tutto sarà approntato entro l’estate e la rivoluzione della scuola italiana sarà affidata al sapere critico anche nelle scuole altamente professionalizzanti.

“Anche”, una congiunzione copulativa del tutto inspiegabile che suona come una concessione. I ragazzi degli istituti tecnici probabilmente avvertono più di altri indirizzi l’urgenza dei processi di mutamento tecnologico. La filosofia diviene dunque una stasi psicologica e intellettuale tra esplorare, imparare e ascoltare. All’occhio della sottoscritta, inedita insider trend forecaster filosofica, la Gen Z, generazione per eccellenza con un piede nel futuro e non più capace di aspettare i tempi biblici dell’adeguamento ministeriale per compiere significative incursioni nella materia, ha necessità di una formazione filosofica e del suo intreccio audacissimo con greco, latino, teoria del linguaggio, economia, psicologia, religioni e storia.

In quest’alba di nuovi dèi, in quello che fu il presunto crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (tanto cari al controverso Julian Jaynes), paragonabili alla transizione cognitiva determinata da Big Data e metaverso, perché impedire proditoriamente l’addestramento gnoseologico della filosofia a circa cinque milioni di giovani italiani? Stiamo parlando di ben il 30,3% di studenti solo tra i nuovi iscritti. Sacrificare un simile strumento di codifica di senso, con implicazioni socio-psico-antropologiche, rischia di creare un doloso vulnus di coscienza alle giovani menti in età evolutiva.

Banalmente, il continuo invito alla conformità operato dai social media rischia di instillare abnorme interesse per quelle vetrine del desiderio che producono bisogni inconsci e aspirazioni d’alterità in una mente poco allenata al senso critico, così pure dipendenza, perdita d’identità, desideri eterodiretti e subordinazione. Se è vero che i social hanno aiutato i ragazzi a sopportare e superare la pandemia, continuano a essere, in più di un caso, tutt’altro che neutrali sistemi di propaganda. È ancora vero che la Gen Z è regina incontrastata del panta rei e della focalizzazione dell’identità rispetto alle generazioni precedenti, ma è altrettanto vero che sente incombere costantemente la spada di Damocle dell’Internet addiction disorder (Iad).

La Gen Z sa fare i conti, quasi per innatismo, con l’articolazione della verità del filosofo Vladimir Jankelevitch per il quale “Essa dev’essere graduata, la si deve somministrare come un elisir potente, aumentando la dose di giorno in giorno”, e ha pure familiarità con il peso soggettivo della Veritas di certi patetici filtri sui social, ma l’intuito ha da essere allenato per affinare l’attitudine. Difficilmente la persuasione coercitiva può attecchire sulla mente filosofica adusa a speculare. Ma il loro ambiente mediatico nativo orienta scelte politiche, crea tendenze, modifica abitudini, alimenta bisogni, genera consumi e indirizza l’opinione pubblica spesso verso prospettive unilaterali. Basti pensare alle informazioni distorsive su Covid e vaccini che mettono a serio rischio la ripresa di un intero paese.

Con l’avvento dell’homo televisivus, nel Novecento, Karl Popper – paventando comportamenti anti sociali derivanti dalla persuasione di massa della tv cattiva maestra – proponeva una patente per i produttori televisivi, un test di sbarramento etico in abito comunicativo. Al giovane homo digitalis potrebbe bastare assai meno dell’anacronistico e storicamente sterile proibizionismo autarchico. La differenza tra popolo e sciame consiste nell’allenamento del pensiero. Perché per i nostri ragazzi degli Istituti Tecnici deve essere un no a priori?

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