“Sapeva quasi tutto di tutti, e quello che non sapeva, tutti pensavano che lo sapesse. Per questo poté vivere come uno che non sapeva niente di niente”. Questo è l’epitaffio che Francesco Pazienza avrebbe scritto, se gliel’avessero chiesto, sulla tomba del suo grande amico “Umbertino”, Federico Umberto d’Amato, gran burattinaio dell’Ufficio affari riservati, la più luciferina delle spie italiane. Potrebbe essere anche l’esergo del suo libro appena uscito per Chiarelettere, La versione di Pazienza.
Faccendiere, uomo d’affari, agente segreto, bon vivant, guascone e un po’ spaccone, Francesco Pazienza recita da decenni con maestria il ruolo di guida nel labirinto degli specchi, dove non sai se ciò che vedi è riflesso, o finzione, o inganno, o realtà. Il suo libro si può leggere dunque come un gustoso romanzo di spionaggio. Peccato costeggi fatti veri, scogli e rade della nostra vita collettiva, vicende sanguinose della storia italiana, depistaggi, ricatti, stragi, offrendo la sua versione, la versione di Pazienza, che non sapremo mai se (e in che dosi) è riflesso, finzione, inganno, realtà. In una storia, quella dell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, in cui la politica, l’economia, il potere erano in gran parte un sublime labirinto degli specchi affollato di gruppi criminali.
Il ragazzo era sveglio. Nato in Puglia, laureato in medicina a Roma, gran passione per le immersioni subacquee (reali e metaforiche), va a lavorare dal celeberrimo oceanografo Jacques-Yves Cousteau. Legato alla Cia, dice la leggenda. Fatto sta che il ragazzo comincia in Francia a tessere una rete di relazioni che comprende uomini d’affari, mediatori, agenti segreti, alti prelati; in Europa, in Vaticano, negli Stati Uniti.
Rientra in Italia nel 1980 e viene ingaggiato dal capo del Sismi, il servizio segreto militare: Giuseppe Santovito, uomo della P2, lo assume come consulente ad personam. Durerà un anno, fino all’aprile 1981. Primo incarico, procurare un dossier contro monsignor Paul Marcinkus, il capo dello Ior (la banca del Vaticano), da consegnare al suo avversario interno, il segretario di Stato monsignor Agostino Casaroli. Il ragazzo sveglio trova, presso l’avvocato svizzero Peter Duft di Zurigo, il dossier compromettente che documenta i rapporti segreti e illeciti tra lo Ior e il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, ma fa il contrario di quanto gli aveva ordinato il capo: lo compra (per 1,2 milioni di dollari, paga Calvi) e lo fa sparire, per disinnescare quella che ritiene una congiura vaticana contro papa Wojtyła e le sue attività anticomuniste in Polonia.
Poi lascia il Sismi e passa a lavorare per un Calvi ormai impaurito e braccato, dopo il crac del suo Banco e la scoperta delle liste P2 di Licio Gelli (in cui compare anche il nome del banchiere, accanto a quelli di Santovito, D’Amato e tanti altri). Non che sia stato granché efficace, l’attività di Pazienza: Calvi muore, impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra, dopo che tutti quelli che aveva attorno si erano dati da fare per spolpare lui e il Banco.
Ma la versione di Pazienza è che il crac da 450 milioni di dollari dell’Ambrosiano non esista, sia “un gigantesco imbroglio”, una manovra dei poteri che, uscito di scena Calvi, volevano impossessarsi dei suoi tesori comprandoli a buon mercato. La prova? Un (introvabile) rapporto sulla situazione finanziaria del Banco Ambrosiano preparato dalla Touche Ross di Londra. Eppure anche Pazienza non può negare l’incredibile spoliazione del Banco, depredato da Gelli e dai suoi venerabili fratelli. E se lo Ior di Marcinkus si disse estraneo al crac, anche Pazienza non manca di rilevare che il Vaticano “estrasse dal portafogli 300 miliardi di lire che finirono all’implacabile Touche Ross and Co. Il denaro non uscì dalle casse di San Pietro, ma da quelle dell’Opus Dei”.
Il capolavoro del faccendiere è però un altro: racconta di aver arruolato nel Sismi, quando era “consulente” di Santovito, nientemeno che Federico Umberto d’Amato, il numero uno delle spie in Italia, ormai scaricato dal Viminale ma sempre all’opera con la sua rete di intelligence: pagato 15 milioni di lire al mese per stilare un rapporto quindicinale.
Nell’ottobre 1982, Pazienza si trasferisce negli Stati Uniti. Ma lì lo inseguono le accuse che lo porteranno per lunghi anni in carcere. Le prime sono di associazione a delinquere, peculato, favoreggiamento e interessi privati in atti d’ufficio per la sua collaborazione con il Sismi. Ad accusarlo è Mimì, un amico conosciuto ai bei tempi di “Bourbon” Santovito e “Umbertino” D’Amato: il magistrato Domenico Sica, aiutato da un carabiniere “che sarebbe diventato molto famoso: l’allora tenente colonnello Mario Mori”. Inizia quella che Pazienza racconta come una congiura, una macchinazione, una persecuzione. Che culmina con l’incriminazione per il depistaggio (piduista) delle indagini sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980.
È l’operazione “Terrore sui treni” (far ritrovare carte ed esplosivo sul treno Taranto-Milano) messa a punto con Gelli e Santovito, per deviare le indagini sulla strage della stazione, fascista e piduista, sul binario morto di una inesistente “pista internazionale”. Nel febbraio 1985 viene arrestato a New York. Nega (a ragione) di essere iscritto alla P2 (per Gelli ha solo parole di scherno e di disprezzo). Ma nega anche il depistaggio sulla strage. Lo smentisce una condanna definitiva a 10 anni, ricevuta in compagnia di Gelli e di due ineffabili ufficiali del Sismi.
Racconta, e dunque ammette, tante altre cose, Pazienza. La vendetta-ricatto a Mimì, Domenico Sica, di cui fa registrare da uomini del Mossad una notte in compagnia di Marina De Laurentiis (che era stata fidanzata di Pazienza) in un lussuoso hotel di Saturnia. Ma anche il ricatto a Federico Umberto D’Amato: “Il mio caro Umbertino ricevette qualcosa. Una foto del suo segretissimo appartamento di Parigi pagato con i fondi neri del Banco Ambrosiano”. Come risolse il problema non è dato sapere. Pazienza racconta, come fosse una bravata, dei suoi buoni rapporti con la famiglia mafiosa dei Gambino negli Usa (usata per convincere gli Ustascia a non compiere azioni violente a Roma). E l’incontro con Tano Badalamenti, gran capo di Cosa nostra, che lo sceglie come compagno di cella in carcere, in quanto “fidato”.
Racconta pure un paio d’incontri con Giulio Andreotti, uno dei quali piuttosto agghiacciante, in cui, a sua detta, il Divo gli chiede di risolvergli i problemi che gli stava procurando l’avvocato di Michele Sindona, Rodolfo Guzzi: “‘Insomma, questo avvocato Guzzi sta dicendo in giro un sacco di stupidaggini… come faccio a farlo smettere?’. Allargai le braccia e dissi: ‘Presidente, forse dovrebbe rivolgersi alla divina provvidenza’. Pensavo di averlo spiazzato, ma fu lui a spiazzare me: ‘L’ho fatto, per questo ora lei è qui’”.
Rivendica con orgoglio di aver “inventato” il Supersismi, deviazione istituzionale dell’intelligence italiana, ma giura che era composto solo da lui, una struttura “dove io ero generale, colonnello, maresciallo, truppa e mulo con basto”. Rivendica le operazioni dei Supersismi, cioè di Francesco Pazienza: le trattative con la Camorra per la liberazione del democristiano Ciro Cirillo dalle Br (“Agii su richiesta diretta di Flaminio Piccoli”); il “Billy Gate” contro Jimmy Carter (“Su richiesta di Michael Ledeen, ma con il benestare di Santovito”); l’operazione Solidarność (soldi dell’Ambrosiano, attraverso il papa, al sindacato polacco); l’organizzazione dell’incontro tra Giovanni Paolo II e il leader palestinese Yasser Arafat; l’incontro di Santovito con il capo dello Sdece (il servizio segreto francese), De Marenches; la “connessione con il capo del G2, il servizio segreto del Nicaragua, nonché futuro dittatore del paese, Manuel Noriega”. Riflesso, finzione, inganno, realtà? Provate a uscire dal labirinto degli specchi, se ci riuscite.