di Claudio Amicantonio

Mentre nuovi venti di guerra iniziano a soffiare con veemenza al centro della civiltà occidentale, mettendo a dura prova equilibri politici già di per sé precari, è inevitabile che risorga la questione intorno alla legittimità della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”, per limitarci alla celebre definizione di Von Clausewitz che, in verità, testimonia una lunga serie di voci che nella nostra civiltà si son sempre levate per esaltare la guerra.

Basti pensare che quasi tutti gli dèi sono guerrieri e persino Jahvè, nella Bibbia, è “il signore degli eserciti”, che il Corano rassicura i guerrieri dell’Islam: “non siete voi ad uccidere, è Dio”, che a fondamento della nostra civiltà troviamo la narrazione omerica della guerra di Troia, che per Eraclito “la guerra è la madre di tutte le cose”, che persino Kant, che aspira alla “pace perpetua”, scrive che “la guerra ha qualcosa di grande in se stessa”.

È possibile – anzi è del tutto probabile – che la condanna per la guerra sia unanime. Come poter legittimare la violenza e l’orrore della guerra? Come anche solo immaginare che possa esistere un brandello di giustificazione alla devastazione che ogni guerra reca inevitabilmente con sé? Non appena, come oggi, si affaccia sulla storia un conflitto armato si levano immediate le voci “ferme” del pacifismo che deplorano qualunque forma di guerra e aspirano ad una soluzione non violenta dei problemi che sorgono nelle relazioni tra Stati e, da ultimo, tra popoli.

Anche la nostra Costituzione sancisce all’articolo 11 che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Eppure ogni giorno le atrocità della guerra fanno il giro del mondo sin dalla notte dei tempi, anche se i popoli benestanti del nord del Pianeta ne prendono coscienza solo quando il pericolo inizia a bussare alle proprie porte.

La grande questione, tuttavia, sta tutta nella “fermezza” della condanna della guerra ovvero sulla capacità delle “affermazioni” in favore della pace di rimanere davvero “ferme” e di non lasciarsi travolgere dalle forze che vogliono la guerra.

Per quanto possa apparire cinico e crudele è inevitabile giungere alla conclusione che, nella nostra epoca, tutte le voci che condannano la guerra hanno la sussistenza delle “anime belle” di hegeliana memoria. Sono del tutto incapaci di “star ferme” di fronte a chi intende far prevalere la “negazione” della pace.

Per poter comprendere l’inevitabilità di questa conclusione è bene ricordare che la nostra è l’epoca della “morte di Dio”, l’epoca il cui assioma – quasi del tutto – indiscusso consiste nel credere che non esista nessuna “verità assoluta”, nessun “ordinamento immutabile”, nessuna “legge morale universale”, nessun “punto fermo” a partire dal quale gli uomini possano costruire un ordine universale di giustizia e di pace. Persino le leggi scientifiche non hanno più il valore di verità assolute, ma “solo” di strutture statistico-probabilistiche sempre rivedibili e mai del tutto “ferme”, come la cronaca pandemica ha tragicamente portato all’attenzione delle masse.

In concreto, questo assioma di fondo comporta l’impossibilità da parte di qualunque affermazione di rimanere di per sé ferma, poiché a priori ogni affermazione non è e non può essere una verità immutabile, nemmeno – ripetiamolo – le affermazioni delle scienze. Dunque, a maggior ragione nemmeno le voci che condannano “fermamente” la guerra (e ogni altra forma di violenza) hanno la capacità intrinseca di mostrarsi vere (e dunque ferme), poiché tutte le voci della civiltà occidentale tremano, se la verità immutabile è inesistente.

È più che comprensibile l’indignazione che le voci di condanna della guerra mostrano di fronte a delle analisi che di norma suonano stridenti con l’urgenza morale di “fermare” la guerra. Suvvia, si dirà, bando alle chiacchiere e si proceda con fermezza a fermare la guerra! Eppure, se non esiste – se è impossibile che esista – una verità immutabile, segue necessariamente che ogni affermazione è solo il tentativo di far prevalere ciò che di per sé non riesce a valere e dunque da ultimo è la volontà di un certo gruppo umano, che preferisce che si realizzi la pace, che si scontra con la volontà di un cert’altro gruppo umano che preferisce la realizzazione della guerra.

Uno scontro tra preferenze contrastanti, nessuna delle quali ha la capacità di mostrarsi come incontrovertibilmente vera, il cui esito determina la preferenza vincente e la preferenza perdente, rimanendo a priori impossibile determinare quale sia quella vera e, di conseguenza, giusta. Anche laddove la volontà di pace s’impone sulla volontà di guerra, la pace non s’impone perché è vera, ma viene creduta vera perché riesce ad imporsi.

Quest’ordine di considerazioni implica che, in un quadro di assenza della verità assoluta, ogni volontà di pace si trova nell’alternativa tra il rimanere una volontà perdente, lasciando che s’imponga la volontà di guerra, o il tentare di essere la volontà vincente, riuscendo ad imporsi sulla volontà di guerra, dove questo imporsi – questo dover far guerra alla guerra – implica a sua volta che la volontà di pace, per poter essere vincente, è volontà di guerra.

Naturalmente, questa conclusione è inevitabile se e solo se si rimane nel presupposto della nostra epoca che crede nell’indiscutibilità dell’inesistenza della verità.

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