“Abbiamo paura che la guerra arrivi fin qui, dentro il campo, ma anche andarsene non è per niente sicuro. Di notte sento i miei figli gridare nel sonno, parlare di guerra. A volte il terrore li travolge al punto che istintivamente si alzano e cercano di fuggire dalla tenda”. Così Salem (nome di fantasia), padre di 4 figli dai 4 ai 10 anni, sulla quotidianità vissuta nelle ultime settimane nel campo profughi di Alswidan, alla periferia di Marib, in Yemen. La città capoluogo di uno dei governatorati più ricchi del Paese, da un anno è divenuto terreno di un sanguinoso scontro tra la coalizione a guida saudita e i ribelli Houthi che si contendono il controllo del Paese.
Qui si cerca di sopravvivere alla minaccia di bombe e missili sparati da terra lungo la linea del fronte, senza quasi distinzione tra obiettivi militari e civili. Solo a gennaio 43 attacchi indiscriminati hanno distrutto case, fattorie, infrastrutture essenziali e campi profughi, uccidendo bambini che badavano agli animali o raccoglievano la legna. Nelle ultime settimane 8 civili sono esplosi su mine anti-uomo illegali, disseminate ovunque lungo le strade o i binari percorsi dagli sfollati che si spostano di continuo attraverso il paese.
“Ogni giorno i miei figli mi chiedono per quanto tempo avranno così poco da mangiare, niente da mettere per coprirsi dal freddo – continua Salem – Non so cosa rispondere, anche perché i pochi soldi a disposizione servono per comprare le medicine di mia moglie”.
Come Salem e la sua famiglia, in questo momento, almeno 1 milione di sfollati a Marib e più di 4 milioni in tutto il Paese vivono in condizioni di estrema privazione. Centinaia di migliaia di famiglie solo a Marib sono costrette a vivere in oltre 120 campi; l’85% delle famiglie sfollate non riesce a far fronte alle spese quotidiane o pagarsi una casa, perché trovare un lavoro è impossibile. In molti anzi vivono con la costante paura di essere sfrattati dai terreni privati, dove vengono allestiti campi di fortuna in 9 casi su 10. Svalutazione della moneta yemenita e carenza di carburante hanno fatto il resto, con i prezzi di cibo e medicinali più che raddoppiati e famiglie costrette a indebitarsi per far fronte ai bisogni essenziali di ogni giorno.
In piena quarta ondata di contagi da Covid-19 gran parte degli sfollati non ha accesso ad acqua pulita, servizi igienico-sanitari, strumenti di protezione, cure, né tantomeno vaccini. Con solo metà delle strutture sanitarie in funzione 2 yemeniti su 3 – oltre 20 milioni di persone – non può contare su nessun servizio sanitario. Con altre organizzazioni che operano nel paese, Oxfam nell’ultimo anno ha soccorso 95mila persone a Marib, ma settimana dopo settimana, i bisogni continuano a crescere.
L’indifferenza della comunità internazionale e gli interessi dietro al conflitto
La comunità internazionale, di fronte a questo Paese lacerato, tace. Il commercio internazionale di armi continua ad alimentare il conflitto, mentre gli appelli ai donatori per arginare la crisi umanitaria più grande dei nostri tempi rimangono sotto finanziati. L’Italia – dopo aver venduto centinaia di milioni di armamenti nei primi anni di conflitto agli stati della coalizione saudita – ha sì smesso di farlo in seguito alla mobilitazione della società civile nel 2019, ma ha continuato a stanziare in aiuti l’irrisoria cifra di 5 milioni l’anno fino al 2020. L’anno scorso invece gli aiuti italiani sono stati del tutto azzerati.
Le stesse Nazioni Unite, solo pochi mesi fa hanno sospeso il monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani nel Paese, che proseguono indisturbate sulla pelle della popolazione civile inerme. A fronte di un numero imprecisato di vittime totali (nell’ordine delle centinaia di migliaia), sono oltre 18mila i morti e feriti civili dall’inizio del conflitto, oltre 24mila i raid aerei che dal 2015 hanno colpito più di 7 mila volte obiettivi non militari.
L’ultimo appello per la pace prima che sia troppo tardi
Papa Francesco solo pochi giorni fa ha ricordato l’indifferenza della comunità internazionale per la tragedia dello Yemen, lanciando un nuovo appello per la pace. Servirà a rompere il silenzio?