Il musicologo Pasquale Scialò, con il secondo volume della “Storia della canzone napoletana 1932-2003” (Neri Pozza, 2021), ha portato a termine una monumentale opera. Un lavoro che è anche una coinvolgente storia della città e del paese. La canzone a Napoli non ha mai smesso di raccontare i mille volti della città. Il libro parte dalle canzonette di regime, per arrivare ai giorni nostri. Con la Tammurriata nera e il jazz di Carosone, nel secondo dopoguerra, la canzone napoletana sviluppa la sua natura ibrida rielaborando alla sua maniera le nuove tendenze che avanzano sulla scena musicale internazionale.
Qual è la vera specificità della canzone napoletana?
Innanzitutto l’uso della lingua/dialetto napoletano nelle sue diverse declinazioni, da quella letteraria a quella parlata nel quotidiano, che coi suoi diversi gerghi, neologismi, ibridazioni, ha già una propria musicalità e morbidezza; poi una capacità di avvicinare l’autenticità delle emozioni legata al suo bisogno profondo e costitutivo di raccontare il proprio vissuto attraverso il canto. In pochi altri luoghi al mondo come a Napoli è stato messo in musica tutto quanto fosse parte della vita pubblica e privata della città: dalle storie d’amore, di odio o di passione alle vicende politiche, dalla cucina alla guerra, dall’emigrazione alla disoccupazione, dalla malavita alla dolce vita, dalla toponomastica all’architettura.
Infine sul piano strettamente musicale c’è da sottolineare l’importanza di una serie di stereotipi ricorrenti e adeguatamente adottati, sia pure non esclusivi in quanto presenti in molti altri contesti: dal mandolino, che deriva dalla cultura araba, all’uso specifico di procedimenti come la “scala” e la “sesta napoletana” e altro ancora. Ma ripeto è un insieme di elementi, linguistici, sonori, gestuali, vocali, valoriali, a determinare l’identità e la specificità napoletana.
Come si pone la storia della musica napoletana all’interno di quella italiana e mondiale?
In perenne ascolto e dialogo in quanto la musica napoletana è per sua intima natura glocale. Credo ci sia da sempre una dimensione di reciprocità e di scambio tra Napoli e il resto del mondo a partire, sin dal Settecento, dal riconosciuto prestigio della produzione e delle scuole musicali napoletane. Venendo in tempi più vicini, si può affermare con certezza che la nostra canzone tradizionale ha influenzato enormemente la nascita di quella italiana lungo tutto il Novecento. Ma anche successivamente, negli anni dei primi Festival di Sanremo, Diego Carpitella parla di influenza del filone napoletano con brani come Malinconica tarantella, di Giancarlo Testoni ed Enzo Ceragioli.
Dal dopoguerra questo profilo ibrido della canzone napoletana sperimenta un’espansione senza precedenti delineando appunto una scena glocale in cui Elvis Presley canta motivi napoletani mentre Carosone, Calise, poi Senese, Musella, Daniele, Avitabile… configurano il nuovo puzzle della musica partenopea con elementi di diversa provenienza.
Cosa pensa del fatto che Nino D’Angelo non si senta un neomelodico?
Innanzitutto, va chiarito cosa intendiamo per neomelodico. In senso letterale sta per “nuova melodia” senza alcun distinguo temporale, formale, stilistico. Dunque, ogni brano nuovo immesso sul mercato napoletano dovrebbe essere definito neomelodico in quanto più recente del precedente. Ma non è così. Veniamo ai fatti: il termine, come riporto nel volume, viene introdotto per la prima volta da Peppe Aiello nel 1997 nel volume collettaneo “Concerto Napoletano. La canzone dagli anni Settanta a oggi”: “Sufficientemente preciso sarebbe chiamarla nuova canzone melodica napoletana, per brevitàe per capirsi la chiamo neomelodica, ma per chi voglia evitare neologismi sono disponibili due diverse definizioni, le quali contengono purtroppo una notevole ambiguità: ’E canzone napulitane, per chi le ascolta, le canzoni alla Nino D’Angelo, per chi non le ascolta”.
Pertanto, stando alla definizione, D’Angelo c’entra eccome, anzi potremmo dire che rappresenta, insieme a Patrizio, un prototipo neomelodico; ma i tempi non coincidono in quanto il caschetto d’oro di S. Pietro a Patierno scrive le sue prime canzoni, come ‘O scippo, addirittura nel ’76, circa vent’anni prima. Poi compone una serie di brani pop con testo in dialetto nell’intento di dare voce ai disagi giovanili con la convinzione, a differenza delle canzoni di mala del tempo, che innamorarsi, andare in discoteca, mangiare pop corn e patatine in jeans e maglietta, in fondo, è meglio che ammazzarsi.
Insomma, la verità è che l’iniziale ambiguità del termine viene usata strumentalmente ancora oggi come scudo nel tentativo di legittimare musiche banali, esecuzioni sciatte, trash, se non veri e propri comportamenti di mala. Per questo D’Angelo, giustamente, si sfila dalla mischia autoproclamandosi semplicemente “cantante napoletano”.
Dove sta andando la musica napoletana?
Nel finale del volume, sorvolando a volo d’uccello sulla produzione della musica napoletana contemporanea, introduco la metafora dell’arcipelago, inteso come un insieme di isole (i diversi filoni) immerse nel mare (la lingua napoletana) con frequenti collegamenti – alcuni in superficie (affinitàmelodiche, ritmiche, armoniche) e altri in profondità (scambi tra sistemi sonori e matrici) – a tenerle unite, con la costa (tradizioni del canto napoletano) che fa da cornice. Questa immagine dall’alto ci aiuta a superare categorie statiche, come la dicotomia colto-popolare, elementi autoctoni e d’importazione, che non tengono conto di quanto le correnti liquido-sonore abbiano da sempre prodotto, e tuttora producano, frequenti scambi, ma anche conflitti e collisioni, nel loro continuo movimento.