Cinema

Festival di Berlino 2022, Nel mio nome “meditazione sull’umanità trans mai vista in altro film”

Scritta e diretta da Nicolò Bassetti l'opera è prodotta da Elliot Page e racconta le storie di Nico, Leo, Andrea e Raff quattro ragazzi transgender

di Anna Maria Pasetti

“Una transizione di genere è uno degli atti incruenti più sovversivi che esistano. Per questo dobbiamo riempire il mondo di narrazioni nostre, singolari, anche pazzamente divergenti l’una dall’altra”. È lo statement conseguente a un fatto inconfutabile quello su cui prende forma Nel mio nome, scritto e diretto da Nicolò Bassetti in programma oggi alla 72ma Berlinale, sezione Panorama Dokumente. Del resto se tanta è ormai la filmografia LGBT, pochi ad oggi sono i documentari che così puntualmente e da vicino raccontano il delicatissimo (e “sovversivo”) processo di transizione di genere di giovani – se non addirittura adolescenti – rappresentati da quattro ragazzi transgender, ovvero che da femmine sono diventati maschi.

Film importante per “come racconta cosa”, Nel mio nome porta il marchio di garanzia di Elliot Page, oggi attore e attivista americano già Ellen Page, la giovane attrice apprezzata in film come Juno e Inception. Page ha voluto firmare la produzione esecutiva del documentario dichiarando “Quello che rende Nel Mio Nome unico è la sensibilità e l’attenzione con cui racconta, tutti i diversi pezzi che formano l’identità di una persona. È una meditazione sull’umanità trans e non ho mai visto un altro film come questo”. Sarà perché lo stesso figlio di Bassetti, già produttore di lavori come Sacro GRA di Gianfranco Rosi, è transessuale, certo è che la cura nello sguardo con cui l’autore osserva Nico, Leo, Andrea e Raff nel racconto della loro non facile transizione avvenuta anni or sono è di notevole spessore. “L’esperienza personale di genitore mi ha permesso, come regista, di trovare la necessaria sicurezza per stabilire un rapporto intimo con i protagonisti di questa storia, costruito su fiducia e complicità” ha spiegato Bassetti. Ma seppur “personale” il film ha un respiro profondamente universale, a partire dall’esigenza di “giustizia” percepita da tutti i transgender del pianeta. In apertura di film, infatti, si legge che “Nel nostro ordinamento giuridico non c’è spazio per un terzo genere. Data la presenza di caratteri primari e secondari maschili e femminili. Neppure dilatando al massimo la nozione di persona umana”. Ciò fu dichiarato nel 2017 in una sentenza del Tribunale di Milano, ed è quanto, purtroppo, rende necessario questo lavoro bello e commovente, una vera e propria difesa di integrità di chi, alla fine, rappresenta l’1% della popolazione mondiale, il che non è poco.

Sul fronte dei film in corsa per l’Orso d’oro da segnalare finora positivamente tre opere accomunate dalle profonde problematiche affettive interne alla famiglia, nucleo di base di ogni società umana e civile: se Robe of Gems dell’esordiente messicana Natalia Lòpez Gallardo e La ligne della talentuosa svizzera Ursula Meier (con un cast favoloso su cui spicca la sempre perfetta Valeria Bruni Tedeschi) elaborano le inquietudini dei legami famigliari al femminile su più generazioni, Rimini del grande regista austriaco Ulrich Seidl mette in scena il punto di vista maschile, incarnato da un cantante da balera già in età alle prese con la sopravvivenza a se stesso, tra padri anziani e madri appena morte, nonché col rapporto con una figlia che ricompare improvvisamente.

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