Come mai la Commissione europea sta facendo di tutto perché il nucleare rientri tra le fonti di energia “verdi”, nella famosa “tassonomia” di cui si discute da mesi? “La tassonomia è intesa come un bancomat”, non tanto per finanziare la costruzione di nuovi impianti, operazione lunga e costosa, “ma per salvare il vecchio business, rendendo più economico il costo del denaro necessario per aggiornare le vecchie centrali, attraendo nuovi investimenti privati e pubblici”. Lo dice a FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 12 febbraio, uno dei massimi esperti del settore: Mycle Schneider, curatore del World Nuclear Industry Status Report (Wnisr), rapporto annuale di riferimento mondiale sullo stato dell’industria dell’energia atomica. Non è un caso che a spingere per il nucleare “verde” sia la Francia, dove circa la metà dei 58 reattori nucleari attivi sono diventati obsoleti, e quindi vanno chiusi o rinnovati, in entrambi i casi con costi di decine di miliardi di euro in pochi anni. “Se l’Europa vuole realmente raggiungere gli obiettivi climatici che si è prefissa”, chiarisce Schneider “il nucleare è da escludere. Ogni euro speso nel nucleare peggiorerebbe la crisi climatica. Non è solo una questione di rischi e di scorie, come si pensava una volta. Ma di tempi e di costi: impossibile avere nuove centrali prima di 15 anni. E con un prezzo per l’energia nucleare che sarebbe comunque esorbitante rispetto a quello delle rinnovabili”.
Non siamo più a Cernobyl – Con inchieste e approfondimenti, FQ MillenniuM racconta proprio come oggi il dibattito sul nucleare sì-nucleare no sia del tutto diverso da quello dei referendum del 1987, sull’onda del disastro di Cernobyl, e del 2011, in fortuita concomitanza con Fukushima, entrambi vinti dagli antinuclearisti. Lì quasi tutto di giocò sul rischio di incidenti e di gravi contaminazioni radioattive, mentre oggi la partita è soprattutto economica. “Le sole centrali nucleari esistenti richiederanno 50 miliardi di euro di investimenti entro il 2030”, ha dichiarato al Journal du Dimanche Thierry Breton, francese, commissario europeo per il mercato interno. “E 500 miliardi entro il 2050 per quelle di nuova generazione”. L’Italia fino a questo momento ha retto il gioco di Parigi, con diverse aperture al nucleare del ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani, ma più come contropartita di un appoggio sul gas, altro discutibile ingresso nella tassonomia verde. È sul gas, più che sul nucleare, che puntano infatti i grandi gruppi italiani, a partire da Eni. E in Italia, dice a FQ MillenniuM Matteo Leonardi, esperto di politiche energetiche e cofondatore del centro studi Ecco, di fronte a “un decisore politico debole, le strategie energetiche, e quindi ambientali, sono fondamentalmente definite dall’agenda dell’Eni e dai suoi esperti”.
Cantieri eterni – Facciamo finta invece che l’Italia decida oggi di tornare al nucleare, tecnologia che almeno nella fase di produzione dell’energia non produce gas serra. Ebbene, il beneficio sarebbe comunque tardivo rispetto a obiettivi di abbattimento delle emissioni da qui al 2030. Il mensile racconta infatti la storia infinita dei cantieri di due centrali di ultima generazione in Europa. Il terzo reattore di Olkiluoto, in Finlandia, è entrato in funzione il 20 dicembre scorso, mentre la data prevista dal progetto iniziale era il 2009. Nel frattempo i costi sono più triplicati: l’ultima stima è di 11 miliardi di euro. A Flamanville, in Francia, è tuttora in corso la costruzione di un impianto simile, iniziata nel 2007. Anche qui il costo è intanto quadruplicato, passando da 3,3 a 12,7 miliardi. I progetti si sono così trasformati in un bagno di sangue per le aziende costruttrici, in particolare la francese Areva (impegnata in entrambi i cantieri), finita sull’orlo del fallimento e rilevata in parte dal colosso statale Électricité de France (EdF), oggi gravata da 41 miliardi di debiti. Da qui l’urgenza di poter accedere a finanziamenti agevolati che l’inserimento in tassonomia verde potrebbe far arrivare.
Il docufilm scomparso – Tutto questo succede mentre le centrali oggi disponibili – di terza generazione – sono ben lontane dall’aver eliminato il problema delle scorie nucleari e del loro smaltimento. Problema peraltro che in Italia – alle prese con l’estenuante smantellamento delle centrali chiuse – è irrisolto da decenni, con la mancata individuazione del Deposito nazionale. La fiducia nelle capacità della nostra classe politica e amministrativa di fronte a progetti di questa portata è quella che è, e a questo proposito FQ MillenniuM ricostruisce una storia incredibile. Quella di Luigi Ippolito, pioniere del nucleare italiano negli anni Cinquanta-Sessanta, che da presidente del Comitato nazionale per le ricerche nucleari (Cnrn, antenato dell’attuale Enea) aveva portato il nostro Paese a primeggiare nel settore, con l’obiettivo di una completa indipendenza energetica, A partire dal 1963, però, Ippolito fu oggetto di una campagna politico-mediatica orchestrata dal socialdemocratico Giuseppe Saragat. Sulla base di discutibili accuse di malversazioni, Ippolito fu arrestato, condannato in primo grado all’esorbitante pena di 11 anni e 4 mesi, poi diventati 5 anni e tre mesi in appello e in cassazione. Sarà poi graziato dalla stesso Saragat, diventato presidente della Repubblica. L’opinione comune, condivisa esplicitamente da Ippolito, era che il caso fosse stato montato per stroncare la nascente industria nucleare nazionale, in favore di quella petrolifera delle multinazionali. Cosa che riuscì perfettamente. Mentre un film inchiesta promosso da Rai2 nel 1979, Il caso Ippolito, non è mai andato in onda. E pare scomparso da tutti gli archivi.