I giudici amministrativi possono ottenere incarichi di vertice in ministeri e altre amministrazioni senza andare "fuori ruolo", cioè senza smettere di fare i magistrati, cumulando funzioni e relativi stipendi. E sfuggendo così alla stretta inserita nella nuova norma - i tre anni di "raffreddamento" prima di rientrare in servizio - che invece riguarda solo chi quelle funzioni le ha abbandonate
Fine delle carriere a metà tra politica e magistratura? Non per tutti. La riforma che blocca le porte girevoli “dimentica” una categoria che non ne ha mai avuto bisogno, perché va avanti e indietro tutti i giorni: i giudici amministrativi, che da Bolzano a Palermo sono abituati a gravitare nei due mondi allo stesso tempo, grazie a un privilegio che permette loro di ottenere incarichi di vertice in ministeri e alte amministrazioni senza andare “fuori ruolo“, cioè senza smettere di fare i magistrati, cumulando funzioni e relativi stipendi. E sfuggendo così alla stretta voluta dalla ministra Marta Cartabia – i tre anni di “raffreddamento” prima di rientrare in servizio – che invece riguarda solo chi quelle funzioni le ha abbandonate. Parliamo di una schiera di decine e decine di consiglieri di ministri, esperti e vice capi di gabinetto che sotto il completo da grand commis mantengono la toga di giudici nei Tar e (soprattutto) al Consiglio di Stato. E per questo si ritrovano di continuo a decidere controversie e dare pareri sugli atti della pubblica amministrazione, compresi magari i ministeri dei governi per cui lavorano.
È una consuetudine diffusa: perfino mentre il governo chiudeva il testo sulle porte girevoli c’era chi gli chiedeva conto di situazioni come queste. Il deputato di Alternativa (la componente del Misto che riunisce alcuni ex dei 5 stelle) alla Camera, Andrea Colletti, ha depositato un’interrogazione su tre casi recenti, per i quali ravvisa “un potenziale se non attuale conflitto di interesse in cui l’interesse personale interferisce con l’interesse pubblico generale, determinando una non terzietà ed imparzialità della decisione assunta”. Parliamo di Michele Corradino, Massimiliano Noccelli e Raffaello Sestini, tre magistrati in servizio al Consiglio di Stato. Ma non solo. Corradino è anche consigliere giuridico del ministero della Difesa, a diretta collaborazione di Lorenzo Guerini. Noccelli, dal 21 aprile scorso, è a Palazzo Chigi come esperto nell’Ufficio per le pari opportunità: compenso lordo quarantamila euro all’anno. Sestini, infine, è passato in un lunghissimo cursus honorum per quasi tutti i ministeri: esordisce nel vecchio dicastero dell’Industria e dell’Artigianato, di cui diventa vice capo dell’Ufficio legislativo nel 1988. Poi le Pari opportunità, i Trasporti, lo Sviluppo economico, l’Istruzione, i Rapporti col Parlamento, l’Ambiente. Fino al 3 marzo 2021, quando è scelto come vice capo di gabinetto dal Ministero della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, con un compenso lordo annuo di 47.520 euro. Che cumula, come i suoi colleghi, agli emolumenti – si parla di cifre che aggirano tra i 150 e i 200 mila euro l’anno – che già ricevono dall’amministrazione d’appartenenza.
Tutti e tre, quindi, lavorano nei ministeri, ma continuano a distribuire torti e ragioni a Palazzo Spada. E il 15 gennaio scorso erano riuniti nella Terza sezione del Consiglio di Stato per dirimere una controversia che coinvolgeva non un Comune o una municipalizzata, ma il ministero della Salute: l’oggetto era il ricorso del dicastero di Roberto Speranza contro la sentenza del Tar del Lazio che aveva accolto i ricorsi contro le linee guida per le cure domiciliari, che i medici ritenevano un’imposizione. Il punto, però, non è tanto il merito del giudizio, ma chi giudicava: dei cinque giudici che hanno dato ragione al ministero, i tre citati svolgono allo stesso tempo incarichi presso altrettanti ministeri. E toccherebbe solo a loro, nel caso non improbabile in cui la controversia riguardasse proprio quello in cui lavorano, dichiarare il proprio conflitto d’interesse scegliendo di astenersi. La nuova legge, del resto, non glielo impone.
Di queste storture la riforma sulle porte girevoli tra magistratura e politica non si occupa. L’articolo 19 del ddl in discussione alla Camera, come riformulato dal maxiemendamento del governo, regola il “ricollocamento a seguito dell’assunzione di incarichi apicali e incarichi di governo non elettivi”. Riguarda tutti i magistrati, compresi i militari, ma – attenzione – solo quelli collocati fuori ruolo che al rientro e per i successivi tre anni “saranno destinati ad attività non direttamente giurisdizionali, né giudicanti né requirenti”. La regola però non tiene conto delle peculiarità della giustizia amministrativa, che sotto questo aspetto ha maglie molto più larghe di quella ordinaria. In base alla legge 418/1993, che ne regola l’ordinamento, i giudici di Tar e Consiglio di Stato possono assumere quasi tutti gli incarichi senza bisogno di andare fuori ruolo: basta un’autorizzazione del Consiglio di presidenza, l’equivalente del Csm. L’unica limitazione è che possono svolgere un solo incarico “in modo continuativo”, mentre non c’è un tetto per quelli che “non comportano un rilevante impegno di lavoro”. Viene escluso solo un ridotto numero di cariche specifiche (segretario generale, capo di gabinetto, direttore della Scuola della Pubblica amministrazione) che comportano l’uscita dal ruolo. Ma non tutte le altre, tra cui consigliere giuridico, esperto, vice capo di gabinetto e così via, che sono collezionabili a piacimento senza rischio di dover lasciare la toga, cumulando i compensi sulla base di un “contratto individuale” di diretta collaborazione.
Il tema di fondo, però, è un altro: questa dimenticanza lascia aperta una breccia nel muro eretto dalle nuove norme per separare incarico politico e ruolo giudiziario, consentendo di esercitarli entrambi e in contemporanea. Più che una porta girevole, una galleria a doppia percorrenza. Senza correttivi, il conflitto antico che si voleva evitare rischia di vedersi attribuire una patente di legittimità. E il tema potrebbe alimentare una coda di polemiche.