Le critiche al progetto di Cingolani sui giacimenti italiani non sono solo quelle di matrice ambientalista, contro la ripresa delle trivellazioni. Per ragioni opposte il presidente di Nomisma Davide Tabarelli sottolinea come questo piano dilati i tempi. Intanto il governo lavora all'assegnazione di nuove concessioni in cambio di gas a prezzi calmierati. Anche perché l'incremento dell'offerta italiana ipotizzato non avrà alcun effetto sui valori di mercato. Ecco perché
Si sta scatenando una tempesta in quel bicchiere che più o meno contiene tutto il gas dei giacimenti italiani. Il presidente di Nomisma energia Davide Tabarelli ha commentato il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai) approvato ieri dal ministero della Transizione ecologica: “Con queste regole ci vorranno anni, se non decenni, per produrre più gas in Italia: ce lo dimostra l’esperienza degli ultimi 20-30 anni. Anche se tecnicamente un raddoppio della produzione da 3 a 6 miliardi di metri cubi sarebbe possibile in un anno”. Nomisma ricorda come nel 2021 la produzione nazionale di gas ha raggiunto il minimo dal 1954 a 3 miliardi di metri cubi. L’Italia, spiega ha toccato il picco di produzione nel 1991 con 21 miliardi di metri cubi e potrebbe oggi facilmente arrivare a 10 miliardi di metri cubi in più all’anno, 7 miliardi di euro in valore. La linea è la stessa sposata dal quotidiano di Confindustria il Sole 24 Ore, che definisce il piano del ministero “frena-giacimenti”. Da notare che il documento riceve critiche anche in senso diametralmente opposto poiché comunque interrompe la moratoria sulla concessione di nuove e consente la riattivazioni di impianti in Adriatico e in Sicilia.
Più concessioni e prezzi calmierati – Il governo però sbandiera un piano per cui a fronte di un aumento delle concessioni e delle estrazioni a favore di Eni (di cui il Tesoro detiene il 30%) i prezzi di vendita verrebbero calmierati e utilizzati per sfamare le industrie “energivore”, più colpite dai rincari. A dar credito a quanto scrive Nomisma energia è forse allora il caso che Draghi e Cingolani si spieghino un po’ meglio tra di loro. Forse lo faranno perché il Piano del ministero della Transizione ecologica non è inscalfibile, prevede anzi esplicitamente la possibilità di deroghe. E questo spiega perché gli animi iniziano a surriscaldarsi.
Lasciamo pure da parte il fatto che coerenza vorrebbe che mentre si chiede a Cina ed India di lasciare sottoterra i loro combustibili fossili noi dovremmo fare altrettanto. Ipotizziamo che la crisi in Ucraina degeneri e gli scenari del mercato energetici si facciano ancora più cupi di quanto già non lo siano e per un lungo periodo. Molto difficilmente sarà il nostro gas a salvarci. L’Italia è, per molte ragioni, fortemente dipendente dall’estero per il suo fabbisogno energetico e lo resterà a lungo in ogni caso. Raddoppiare le estrazioni non diminuirà, se non in modo simbolico, la nostra dipendenza da Mosca da cui arrivano in Italia circa 30 miliardi di metri cubi l’anno e che ha comunque bisogni di vendere il suo gas per finanziarsi, a maggior ragione in caso di costosi conflitto. Il ricatto insomma funziona da tutte e due le parti. La strategia di Eni, su cui tendono da sempre a modellarsi le politiche energetiche italiane, è quella di approdare all’era del biogas e dell’idrogeno senza che in questo tragitto sia necessario il supporto delle rinnovabili. Che infatti frenano.
Nessun effetto in bolletta – Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Secondo il rapporto annuale dell’Eni nei giacimenti italiani si trovano 40 miliardi di metri cubi di gas. Ce ne sono altri 30 miliardi “probabili”. In tutto 70/80 miliardi. Le riserve naturali russe, le più grandi del pianeta, racchiudono 50mila miliardi di metri cubi. Quelle dell’Algeria (altro nostro storico fornitore) 4,5 mila miliardi. Come avviene ovunque nel mondo queste stime si basano sulle tecniche di estrazione disponibili e realisticamente attivabili alle attuali condizioni di mercato. Di gas, in linea teorica, ce n’è, dappertutto, molto di più ma estrarlo non si può o assolutamente non conviene. Ogni anno l’Italia consuma oltre 70 miliardi di metri cubi di gas. I giacimenti basterebbero quindi ad assicurare il fabbisogno di un anno o poco più.
Il gas estratto in Italia finisce sul mercato internazionale. Solo nell’ Unione europea si utilizzano 380 miliardi di metri cubi l’anno. Si può quindi facilmente capire quale sarebbe l’effetto di riduzione prezzi (e sulle nostre bollette) di un’ offerta aggiuntiva di 3 miliardi di metri cubi: zero. Chi avrebbe invece molto da guadagnare è chi il gas lo estrae e lo vende (principalmente Eni). Un metro cubo vien venduto oggi a circa 50 centesimi. Tre miliardi di metri cubi in più significa incassi aggiuntivi per circa 1,5 miliardi di euro. Il che spiega forse l’appetito con cui le lobbies industriali guardano a questa opportunità. Ieri si è espresso a favore di un aumento delle estrazioni il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, intervistato da Il Corriere della Sera. Dalle stesse pagine gli fa eco oggi il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti.