Il presidente madrileno è stato il primo a riunire in un'unica squadra i più grandi campioni del momento, poi il suo modello è stato seguito - in maniera molto più smaccata - dall'emiro del Qatar. Con un'unica, fondamentale differenza: a Parigi ha vinto il nulla a livello europeo. E quest'anno rischia l'ennesimo, costosissimo buco nell'acqua
Nel calcio esiste solo un modo per creare il proprio blasone: comprarlo. Vuol dire strappare i giocatori migliori agli altri. Significa spendere montagne intere di quattrini. Anno dopo anno dopo anno. Perché l’obiettivo non è vincere. Ma provare a eternare il proprio dominio. Un’idea che ha avuto una applicazione tutta nuova alla soglia del Duemila, quando Florentino Pérez si è insediato alla Casa Blanca. E allora la monarchia si è trasformata velocemente in assolutismo. La strategia è stata chiara fin da subito: innestare un fuoriclasse all’anno in una squadra di campioni. Era il Real Madrid dei Galácticos, una entità costruita in laboratorio per dominare, un Frankenstein assemblato per fagocitare tutte le rivali. Un concetto che è stato elevato a sistema nell’estate del 2011, quando la Qatar Investment Authority ha messo a punto un piano ancora più ambizioso: trasformare un club dall’importanza marginale come il PSG nel nuovo dominatore del calcio europeo.
Allora il collezionismo di fuoriclasse si è fatto accumulo, accatastamento di giocatori. Un campione incastrato accanto all’altro, nella speranza che qualche allenatore trovi il modo per metterli in campo con costrutto. La logica del tutto e subito ha portato alla costruzione di record di spesa fatti solo per essere infranti, ha creato intorno al club un fascino prima patinato e poi plastificato. In un decennio il PSG ha fatto quello che non era mai riuscito neanche al Real Madrid: declassare un campionato a giardino di casa propria, un regno dove il Re non ha più vassalli e valvassori, ma solo valvassini. Nessuno ha mai operato sul mercato con una spregiudicatezza così sublimata fino a farsi arroganza. E l’acquisto di Mbappé con il pagamento al Monaco posticipato all’anno successivo ne è l’emblema. Tutto con i padroni del vapore del calcio europeo che minacciavano sanzioni che non sono mai arrivate, in ossequio a quell’aforisma di Flaiano che dice che “le dittature altrui non ci danno fastidio”.
È anche per questo che la sfida di stasera fra Real Madrid e PSG assume un significato tutto particolare. Perché si tratta di un ottavo di finale, una terra di mezzo così scoscesa e lontana dalle naturali ambizioni delle due società. Passare il turno non vuol dire vincere qualcosa, ma solo certificare il fallimento altrui, trasformare il rivale in zimbello. Soprattutto perché si gioca in Champions League, campo di battaglia che ha regalato emozioni antitetiche alle due società. Terreno di conquista per il Real Madrid, che ne ha vinte quattro negli ultimi dieci anni, sabbie mobili per il PSG, che invece ha collezionato solo umiliazioni, con il 6-1 al Camp Nou e la finale persa contro il Bayern come fermate più strazianti di una personalissima via crucis. Il doppio confronto ha le sembianze di una lotta di classe al contrario, del tentativo disperato di abbattere un assolutismo per sostituirlo con un altro.
In ballo c’è un passaggio di consegne, dalla vecchia aristocrazia del calcio a quella nuova, per un cambio di equilibri nella geopolitica del pallone. È il nuovo che per farsi strada deve ribaltare il vecchio, non solo il senso metaforico. Perché sulla panchina del Real c’è Carlo Ancelotti, un allenatore che per ognuno dei due club è tante cose e tutte insieme. È l’uomo che ha portato l’attesissima decima a Madrid. Ma anche lo sciamano che non è riuscito a trasformare i petrodollari del PSG in una Champions League e che poi ha raccontato di quella mentalità poco vincente che pervadeva la società. Dopo gli arrivi estivi di Hakimi, Wijnaldum, Donnarumma, Sergio Ramos e Messi, per i francesi finire fuori dalla Champions già a febbraio sarebbe qualcosa in più di un fallimento, rappresenterebbe una marchiatura a fuoco del loro status di parvenu del pallone. In Ayrton Lucio Dalla cantava: “Ho capito che un vincitore vale quanto un vinto”. Una verità che stasera non può trovare applicazione.