E’ davvero una singolare coincidenza che il Consiglio dei ministri approvi all’unanimità un nuovo testo della proposta di legge sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura a pochi giorni da un anniversario storico. Un trentennale, per la precisione: 17 febbraio 1992, arresto in flagranza di reato di Mario Chiesa, presidente socialista del milanese Pio Albergo Trivulzio, evento che segnò l’avvio delle inchieste di Mani pulite. Dopo nulla sarebbe più stato lo stesso nei rapporti tra magistratura e classe politica. Non solo quella “vecchia”, presto spazzata via dall’evidenza giudiziaria del suo coinvolgimento in un “meccanismo che viveva di vita propria” (così lo definì un assessore milanese), quello della corruzione sistemica; ma anche quella “nuova” che l’avrebbe poco degnamente sostituita.
Il sociologo Alessandro Pizzorno spiegò l’origine di quelle frizioni in un denso libriccino del 1998, Il potere dei giudici. Di fronte all’indebolirsi e poi al collasso dei partiti di massa, sempre meno capaci di esercitare una funzione adeguata di selezione di una classe politica dominata da carrierismo e affarismo, ricattabile e facile preda – quando non ostaggio – di interessi e potentati economici, la magistratura ha esteso la sfera delle competenze di fatto esercitate. E lo ha fatto rispondendo a domande sociali, sciogliendo i nodi irrisolti della cattiva regolazione e riempendo i vuoti normativi, ma anche facendosi talvolta coraggiosamente carico di emergenze – terrorismo, mafia, corruzione – scaturite dai fallimenti della politica.
L’attivismo crescente dei giudici ha avuto dunque profonde radici istituzionali e sociali, tra cui l’ingresso di nuove leve di magistrati nell’Università di massa, che indebolì quei vincoli di collusione – di ceto e d’affari – che fino ai primi anni ’70 del secolo passato avevano rinsaldato il patto indicibile tra classe politica e potere giudiziario: alla prima una grande autonomia formale ma soprattutto privilegi e gratificazioni, economiche e di status, in cambio di una “non interferenza” nelle degenerazioni partitocratiche che avrebbero trasformato la corruzione nella più ovvia e “standardizzata” modalità di interazione tra universo imprenditoriale e sistema politico. Per fare un esempio tra i molti possibili, tutti sapevano – ma pochi si indignavano – che il Tribunale di Roma era soprannominato “porto delle nebbie” precisamente per la sua capacità di attrarre i procedimenti penali più scomodi per la classe politica di governo, atti che una volta attraccati in quegli uffici sarebbero stati persi di vista e presto dimenticati nell’inerzia dei magistrati.
L’avvio delle inchieste di “mani pulite” e il cataclisma politico che ne seguì avrebbero rappresentato un punto di non ritorno. Alla magistratura finì infatti per essere affidata una funzione impropria di “controllo di virtù” della politica. Un ruolo che sarebbe spettato a un’opposizione politica invece connivente, ma esercitato dalla magistratura ha determinato negli anni una polarizzazione del conflitto, forzando gli stessi giudici a competere in una sfera indebita di consenso dell’opinione pubblica. Come afferma lucidamente Pizzorno: “In maniera o implicita o, più spesso, esplicita, che lo teorizzasse o no, la magistratura italiana ha agito tenendo conto di quanto avveniva nella sfera pubblica; e ha potuto svolgere il suo compito soprattutto grazie all’appoggio che vi ha trovato. La battaglia con la classe politica è stata combattuta per il riconoscimento e i giudizi che provenivano dalla sfera pubblica”.
Sarebbe arrivata poi l’interminabile stagione della sistematica denigrazione del potere giudiziario ad opera di Berlusconi. A lui si devono perle come “la magistratura è una malattia della nostra democrazia, dobbiamo assolutamente cambiare l’ordine giudiziario”, nel 2006. Una malattia che agli occhi del Cavaliere si sarebbe aggravata, tanto che tra anni dopo così la descrive: “è come una metastasi…”. Eppure l’attacco di una classe politica ostile al potere giudiziario è stato rintuzzato persino negli anni del berlusconismo rampante. Grazia a un sostegno popolare ancora diffuso e alla sponda di alcune forze politiche, è rimasto soltanto un’aspirazione quel riequilibrio di poteri che nelle aspirazioni dell’allora presidente del consiglio, perennemente indagato, avrebbe presumibilmente consentito l’apposizione di guinzaglio e museruola ai giudici ostili.
Del resto –Berlusconi dixit – “questi giudici sono doppiamente matti. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”.
C’è voluto l’harakiri di frange significative della stessa magistratura per autorizzare l’odierno tentativo di riforma, che configura anche un riequilibrio dei rapporti di forza. Dopo i troppi casi di “toghe sporche”, ma soprattutto dopo l’inchiesta che ha svelato il “sistema” Palamara – ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Csm, artefice di una giostra vorticosa di raccomandazioni e spartizioni – l’evidenza di traffici nell’ombra, lottizzazioni correntizie, sterili rivalità e meschinerie assortite ha intaccato la credibilità dei magistrati quali primari “controllori” dell’altrui virtù. Al contrario, la loro stessa virtù è stata messa in discussione proprio nella sfera del riconoscimento pubblico, così preziosa anche per la classe politica, specie quando è indagata.
Nascono da queste premesse istituzionalmente insidiose le proposte governative di riforma dell’ordinamento giudiziario, che pure appaiono in buona misura condivisibili per intenti e contenuti. E’ ragionevole porre un freno ai meccanismi di “porte girevoli” che hanno permesso ai magistrati di transitare liberamente avanti e indietro dai loro ruoli, giudicanti o inquirenti, verso carriere politiche e incarichi governativi. In alcuni casi addirittura mantenendoli entrambi, nonostante le stridenti ragioni di opportunità: si veda il caso di Catello Maresca, che siede alternativamente sui banchi della Corte d’Appello di Catanzaro e in quelli di capo dell’opposizione nel consiglio comunale di Napoli, la stessa città dove era PM antimafia prima di candidarsi.
L’alternanza tra ruoli partigiani e “neutri” disinvoltamente praticata da alcuni magistrati, per quanto autorizzate dalla legge, ha contribuito a intaccare la reputazione di “terzietà” e imparzialità di tutta la magistratura, rendendola vulnerabile alle accuse ricorrenti di impropri condizionamenti politici o ideologici. Va segnalato però il rischio che il disegno di legge rappresenti, nei suoi passaggi parlamentari, l’occasione per una tardiva “resa dei conti” tra due presunti duellanti, magistratura e classe politica. Un aspirante erede politico di Berlusconi, Matteo Renzi, leader di Italia Viva, proprio in questi giorni ha disseppellito l’ascia di guerra scagliandosi contro i magistrati che lo indagano.
Piena autonomia e indipendenza della magistratura, soprattutto nei confronti del potere politico, devono restare una qualità cruciale del nostro assetto costituzionale, prerequisito per quel bilanciamento tra i poteri dello Stato su cui si fondano le fragili architetture democratiche.