Società

Tangentopoli poteva cambiare la storia d’Italia, ma fu solo l’anticamera del berlusconismo

di Ilaria Muggianu Scano

Tutto ebbe inizio il 17 febbraio 1992. In una delle sere più squisitamente meneghine, l’incastro più che banale di Mario Chiesa dà la stura a ciò che avrebbe potuto cambiare il corso della storia italiana, ma di fatto fu solo la rocambolesca anticamera del ventennio berlusconiano. O poco meno. Luca Magni, titolare di una piccolissima ditta di pulizie, strozzato dalle mazzette si rivolge al capitano dei carabinieri Roberto Zuliani che lo introduce ad Antonio Di Pietro, prima della consacrazione ad icona e successiva iconoclastia.

Di Pietro annuisce ieratico come un padre ipercritico che salmodia con un lessico rilassato oltre il livello di guardia e assai poco urbano. Una consuetudine che diventerà presto molto familiare a qualsiasi italiano. Scatta la trappola per Chiesa che si schermisce dietro il celeberrimo e callido orizzonte: “Sono soldi miei”. La cifra della mazzetta-trappola, irrisoria agli occhi avvezzi al nuovo conio europeo, sono una manciata di milioni di lire. Per 3.500 euro Martin perse la cappa. È l’inizio di Mani Pulite e la fine della Prima Repubblica, epica di un’epoca che sembrava dover invitare a concionare qualsiasi italiano fosse in grado di acquistare un quotidiano (prima) e di guardare un tg (poi), come una febbre pandemica ante social.

Tangentopoli sembra il grande motivo ispiratore di qualsiasi crooner da caviardage di grossa o media entità. Un mood picaresco accompagnato a nessuna capacità proiettiva, ad alcuna visione, fa deflagrare il treno dell’onestà nella lisergica allucinazione di mediocrità. Ogni geremiade è all’insegna della più vuota estemporaneità degli umori. Una transizione politica, non ancora conclusa, che non conduce, di fatto, a nessun esito concreto, oltre lo spettacolo del rito accusatorio all’americana.

Nell’italietta sostenuta ancora sull’asse CAF, Craxi, Andreotti e Forlani, ad essere incastrata è per la prima volta una guarnigione di insospettabili colletti bianchi. Tesorieri e segretari di partito, manager delle major aziendali. L’inchiesta partita da Milano innesca il più mediocre e inarginabile degli effetti domino e al ritmo del surreale “Tonino salvaci dal male” sotto le finestre della celebre stanza 254 di Di Pietro e dell’ancor più trash (all’epoca non era ancora stato coniato il termine destinato a diventare un monumento linguistico dell’Italia più imbarazzante da salotto televisivo pomeridiano) smercio di magliette con il logo di Tangentopoli.

Esiste già un esito dell’inchiesta nell’immaginario collettivo dell’italiano medio. Craxi è il male, crivellato di monetine e coperto di sputi davanti all’Hotel Raphaël, abituale residenza romana. Tonino Di Pietro è il cavaliere senza macchia. Lo stesso manicheismo tutto italiano che non s’arresta davanti alla strage milanese con cinque morti e dodici feriti, al suicidio del finanziere Raul Gardini e del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Il Paese reale è galvanizzato da una logica fabulistica, la mistica delle manette, tanto semplice. Mai prima d’ora è stato così distinto il bianco dal nero. I potenti sono, per la prima volta, massacrati dalle fiere al posto dei gladiatori, nell’arena mediatica di Un giorno in pretura in cui Antonio Di Pietro è Massimo Decimo Meridio, che si esprime in un vernacolo molto distante dal latino, ma anche dall’italiano corrente, a dirla tutta.

La storia repubblicana è ancora dolorosamente crepuscolare quando sorge l’astro berlusconiano che fa insorgere l’oracolo dell’Abruzzo Citeriore con l’icastica promessa: “Io quello lo sfascio”. Tutto questo prima di sfilarsi storicamente la toga e lasciare l’empireo della mitologia popolare per l’apparato, assai meno nimbato, del caravanserraglio politico di Italia dei Valori. È il tramonto di Camelot e delle belle speranze di redenzione repubblicana.

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