Il giorno dopo la sentenza della Corte costituzionale di inammissibilità del referendum sull‘eutanasia legale è il giorno di fermarsi e riflettere perché è successo e come rispondere a una richiesta popolare che ha portato oltre un milione di cittadini a firmare perché tutti si potessero esprimere sul tema. Una riflessione necessaria mentre giace ormai da oltre tre anni la norma che dovrebbe regolare il fine vita e il suicidio medicalmente assistito.

Gaetano Azzariti, professore di Diritto Costituzionale alla Sapienza, ritiene che la decisione della Consulta non dovrebbe essere intesa come uno stop – come in troppi sostengono – ma dovrebbe, viceversa, essere intesa come uno stimolo – l’ennesimo – al Parlamento che è stato sino ad ora assente. È necessario che si arrivi a un testo che regoli un tema delicatissimo, quello dell’eutanasia, che deve essere affrontato. Il rischio, dopo anni di attesa, è che oltre a non dare seguito alla decisione della Corte costituzionale con la sentenza Cappato/Fabo si arrechi un danno irreversibile a chi si trova in “situazioni drammatiche” senza avere il diritto di scegliere.

Professore perché i giudici hanno deciso per l’inammissibilità?
Non posso commentare nel merito la decisione perché le motivazioni non ci sono, lo faremo quando ci saranno. Quello che possiamo dire è che questa decisione pone il Parlamento di fronte alla responsabilità di arrivare a un testo legislativo. Credo che la sentenza di inammissibilità, quali che siano le ragioni, debba essere intesa come un nuovo appello al legislatore. Questa decisione è in assoluta continuità con la sentenza 242 del 2019 (Cappato/DjFabo) che ha stabilito la necessità di regolare l’aiuto al suicidio. Come è ben noto quella vicenda fu molto sofferta: preceduta da un’ordinanza in cui si diede un anno di tempo al Parlamento per intervenire. Il Parlamento però è rimasto muto e la Consulta è stata obbligata a emanare una sentenza normativa, in qualche modo dunque a sostituirsi al Parlamento.

Una sentenza importante in cui si definivano quattro circostanze specifiche per accedere al suicidio assistito.
La Corte costituzionale con quella sentenza aveva dischiuso la porta al riconoscimento dell’eutanasia, i referendari volevano spalancarla. È giunto il momento di varcarla quella soglia, e ora tocca al Parlamento. Già prima di questa sentenza ritenevo, e ancora ritengo, che, in ogni caso, anche se fosse stato ammesso il referendum, il Parlamento sarebbe dovuto comunque intervenire. Da quello che si legge nel comunicato della Corte si evince che le ragioni di inammissibilità sono legate alla normativa di risulta ovvero a quello che sarebbe successo dopo l’abrogazione. Dunque, a maggior ragione ora, un Parlamento responsabile deve sentirsi in obbligo di regolare, avendo peraltro più elementi per decidere. Dal comunicato si deduce che secondo i giudici costituzionali la normativa che si sarebbe dovuta applicare dopo l’abrogazione referendaria non avrebbe garantito la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana. Ora dunque abbiamo un “minimo” (la sentenza Cappato) e un “massimo” (la prossima sentenza sul referendum) entro cui il parlamento deve intervenire. È in gioco la responsabilità politica e la stessa capacità del legislatore di rispondere a una evidente richiesta sia della Corte sia popolare. Non solo di oltre un milione di persone che hanno sottoscritto il quesito, ma dell’intera cittadinanza. Spero proprio che il Parlamento affronti la questione. Sarebbe veramente irresponsabile se si utilizzasse l’inammissibilità per lavarsi le mani da un intervento politico necessario.

Eppure nella legge in discussione rispetto ai requisiti già individuati dalla Consulta (paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli) è stato introdotto un percorso di cure palliative e le sofferenze devono essere fisiche e psicologiche.
C’è bisogno di uno scatto di responsabilità del Parlamento. Credo che sia necessario lavorare sull’aiuto al suicidio (l’articolo 580), abbandonando l’ipotesi della modifica dell’articolo 579 (omicidio del consenziente) onde evitare di incorrere nei rischi cha hanno portato a dichiarare l’inammissibilità, ma a questo punto aggiungere altri paletti, altre delimitazioni rispetto a quelli stabili dalla Corte farebbe tornare indietro il dibattito, più arretrato rispetto alla sentenza, che invece dovrebbe rappresentare il minimo dal quale partire. Bisogna lavorare rafforzando le garanzie che assicuri il diritto all’eutanasia.

Ci sono paesi in Europa che hanno messo a punto leggi che vanno molto oltre quei paletti.
La Consulta non ha detto che non si possa ampliare quanto già stabilito. Forse non poteva esser richiamata la legge sul consenso informato. Si tratta di materie delicate che non vanno prese con leggerezza ma vanno assolutamente regolate.

Ma anche per arrivare a quella legge sul consenso informato si è dovuti passare attraverso la lunghissima sofferenza del caso Englaro.
Il Parlamento non può non dare una risposta a situazioni drammatiche. Se la paura che ha portato a non ammettere il referendum può essere collegata alla possibilità che si possa finire per uccidere – pur se con il suo consenso – una persona sana, l’inammissibilità ha eliminato questo timore. Preoccupiamoci ora di risolvere le tante situazioni drammatiche. Dobbiamo insomma accettare l’idea che qualcuno in determinate circostanze possa dire io non voglio più vivere, non sono in grado di far cessare la mia vita autonomamente con il suicidio, devo avere l’aiuto di altri per esercitare questo mio diritto. Spaventa chiunque, anche me, questa idea, spaventa tutti coloro che hanno voglia di vivere, ma a nulla serve voltarsi dall’altra parte. E, dal punto di vista etico e morale, mi sembra pure un po’ ipocrita. Non decidere sarebbe una presa in giro per chi soffre.

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