La Corte Costituzionale ha detto “no” al Referendum sull’Eutanasia. Il quesito sarebbe inammissibile perché con l’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale sull’omicidio del consenziente “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. La Corte fa il suo mestiere strettamente giuridico, o almeno così si spera, ma il comunicato rilasciato prima di depositare la sentenza è piuttosto tranchant: il rifiuto sembra netto, non c’è alcuno spiraglio che lasci intravedere buone intenzioni.
Se invece nella sentenza si parlerà esclusivamente dell’inammissibilità della formulazione giuridica del quesito e di ciò che resterebbe dell’articolo 579 c.p. – come è più probabile che sia – si può comunque restare in disaccordo. A detta di molti, una tale modifica al codice creerebbe una sorta di via libera all’uccisione di chiunque lo richieda senza subire alcuna conseguenza. Non è così: non solo il reato resta punibile se la vittima è di minore età, se il consenso è estorto e se la vittima è in qualsiasi condizione di deficienza o infermità mentale, ma l’eutanasia sarebbe comunque consentita esclusivamente sulla base dei requisiti già previsti dalla legge sul 219/2017 e quelli introdotti con la “sentenza Cappato” proprio della Consulta.
In ogni caso, in un Paese che funziona, l’inammissibilità del quesito in sé non sarebbe una così brutta notizia. In un Paese che funziona, a dirla tutta, non si sarebbe neppure dovuti arrivare a un referendum, perché il Parlamento dovrebbe essere in grado di legiferare (dopo quasi quarant’anni di dibattiti) su un tema che riguarda la vita quotidiana di migliaia di persone in tutta Italia. Ma forse c’era bisogno di una prova da parte della cittadinanza, qualcosa che dimostrasse la reale richiesta di una legge sul fine vita che vada oltre le norme sulle disposizioni anticipate di trattamento già presenti (219/2017).
E la prova gliel’hanno data più di un milione e duecentomila firmatari e firmatarie. Questo numero rappresenta lo scollamento tra formalità e realtà. “La strada è segnata”, ha commentato l’Associazione Luca Coscioni e così è: si tratta di numeri enormi, che fanno la differenza anche in sede di elezioni e non è da sottovalutarne l’impatto alla presenza di candidati e candidate che si facciano portavoce di questa battaglia.
Quel che lascia l’amaro in bocca, in attesa di capire in che modi si potrà proseguire verso l’eutanasia legale, è che la strada per l’obiettivo finale è costellata di storie, di volti, di nuove testimonianze da parte di chi chiede di essere libero fino alla fine. Altri Welby, altri Antoniani, a cui dovremo dire che non c’è modo di morire serenamente in questa Italia. E a dirglielo non sarà la Consulta, né chi per mesi ha rinviato la calendarizzazione per la discussione della legge in aula, a dirglielo non sarà nemmeno Matteo Salvini che si dice dispiaciuto come se fosse stato in prima fila e neanche Giorgia Meloni che si fa paladina della difesa della vita solo quando quella vita ha la carne bianca ed è sulla terraferma. No. A rispondere a una richiesta di aiuto dicendo che la sofferenza continua saranno figlie e padri, mariti e compagne che la classe politica finge di non vedere, mentre applaude cinquantacinque volte di fila al solo udire la parola “dignità”, annegando nell’incoerenza.
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