Nell’aprile del 2004 mio fratello Michele – 72 anni, scapolo, malato terminale di leucemia – decise di farla finita gettandosi dal quarto piano della sua casa a Roma.

Michele sopportava con coraggio le fasi estreme della malattia, anche perché assistito quotidianamente da medici volontari dell’ospedale che lo aveva avuto in cura. Purtroppo una sera – dopo che l’avevo salutato per tornare a casa – Michele ebbe per la prima volta una crisi di incontinenza. La signora che lo assisteva per la notte lo spogliò, lo portò in bagno per lavarlo e lo rimise a letto con un pigiama pulito, non ritenendo necessario avvertirmi di quanto avvenuto.

Michele si addormentò – o finse di dormire – e all’alba aprì le finestre del terrazzo e si gettò dal quarto piano, schiantandosi sul tetto del garage. Dunque, si uccise non per sfuggire a sofferenze fisiche, ma per una esigenza di dignità.

Decisi di rendere nota la sua vicenda e lo feci con una lettera a Corrado Augias, che rispose entrando nel merito della questione del fine vita, aprendo un dibattito che durò diversi giorni e ospitando decine di lettere in favore della eutanasia.

Subito dopo entrai a far parte, per continuare la mia battaglia, della Associazione Luca Coscioni, che a partire dalla vicenda di Welby si batteva per “una morte opportuna” (così la definiva lo stesso Welby).

Posso dire di aver contribuito fortemente ad un primo successo in materia di fine vita con l’approvazione della legge sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento), grazie ai miei buoni rapporti con l’allora presidente del Senato Pietro Grasso e l’amicizia personale con il capo dei senatori Pd Luigi Zanda.
Riuscii anche a coinvolgere nella nostra battaglia i familiari tre “suicidi illustri”: Luciana Castellina per Luigi Pintor, la compagna di Monicelli, Chiara Rapaccini e i figli di Carlo Lizzani, Francesco e Chiara. Insieme scrivemmo una lettera aperta al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ci rispose nella stessa forma esortando il Parlamento a discutere il tema del fine vita.

Poi, anni di manifestazioni e di scioperi della fame e la costituzione di un Intergruppo in favore della eutanasia formato da 124 senatori e deputati.

La vicenda di dj Fabo e la sentenza della Corte Costituzionale sull’operato di Marco Cappato ci avevano fatto sperare che la Consulta avrebbe dato il via libera alla nostra proposta di referendum sulle scelte di fine vita: un referendum in cui gli italiani avrebbero finalmente dato il via libera verso la legalizzazione della eutanasia.

Capiremo in questi giorni le ragioni per cui invece la Corte ha deluso le nostre aspettative. Ma intanto, in questo fine settimana, decideremo una serie di azioni con cui stimolare il Parlamento a legiferare in materia e tenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema di così vitale importanza, in cui l’Italia è rimasta indietro rispetto a molti paesi del mondo, fra cui la cattolicissima Spagna.

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Eutanasia, in un Paese che funziona non saremmo nemmeno arrivati a un referendum

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