Si chiama Bashar Khattab Ghazal al-Sumaidai, un nome che non dice molto al grande pubblico. Ma sembra essere proprio lui l’uomo che prenderà in mano le redini dell’autoproclamato Stato Islamico, dopo che il 3 febbraio scorso il “secondo califfo” dell’Isis, Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, si è fatto esplodere nel corso di un blitz americano nella località siriana di Atmeh, nel governatorato di Idlib, in Siria. A dare la notizia in esclusiva è il sito d’informazione New Lines Magazine, il cui editor e autore dello scoop, Hassan Hassan, è tra i maggiori esperti sulle questioni riguardanti lo Stato Islamico.
Conosciuto con numerosi nomi di battaglia, tra cui Ustath Zaid (Professore Zaid), Al-Sumadai è tornato in Siria dalla Turchia circa un anno fa. New Lines ha ottenuto informazioni inedite su di lui, una figura per lo più ignota in occidente. Il suo profilo è indicativo di una nuova fase per lo Stato Islamico e la sua nuova generazione di leader che stanno pian piano soppiantando la vecchia guardia del movimento. A favorire la sua ascesa potrebbe contribuire il fatto che si tratta di uno dei pochi candidati che vanta una discendenza diretta, difficile da appurare, dalla famiglia del profeta Muhammad, un requisito fondamentale per guidare il Califfato.
Sumaidai, spiegano le fonti, è entrato a far parte dell’organizzazione terroristica nel 2013, poco prima che Abu Bakr al-Baghdadi unificasse il suo gruppo iracheno con l’allora affiliato siriano e lo ribattezzasse Stato Islamico in Iraq e Siria (Isis). Prima di allora è stato membro dell’Ansar al-Islam, una vecchia organizzazione nel nord dell’Iraq composta da veterani iracheni e arabi che avevano combattuto in Afghanistan e Cecenia. La sigla era una delle tante emerse da movimenti estremisti locali che combattevano sia contro i curdi che contro Saddam Hussein negli Anni 90, prima dell’invasione americana dell’Iraq. Quando è entrato a far parte dello Stato Islamico, era in contatto con vecchi adepti in un momento in cui tutto ciò che restava dell’insurrezione irachena doveva in qualche modo adattarsi al teatro jihadista in espansione in Siria.
Sempre nel 2013 Al-Sumaidai si è spostato in Siria, nel momento in cui i gruppi dell’Islam radicale avevano già iniziato a monopolizzare la rivolta contro il regime di Bashar al-Assad. Come altri membri di Ansar al-Islam, il leader jihadista si è unito al gruppo in ascesa dell’epoca: lo Stato Islamico, capeggiato da Al-Baghdadi. Nella nuova organizzazione, Sumaidai ha ottenuto subito incarichi di alto livello, godendo di una certa fiducia per la sua passata attività di predicatore salafita nei pressi di Mosul, stessa zona del “primo califfo”.
Quanto al “secondo califfo”, Sumaidai era certamente vicino ad al-Qurayshi, il leader recentemente morto nel nord-ovest della Siria (proprio come il predecessore). Questa stretta relazione tra i due è stata confermata da Feras Kilani della Bbc, secondo cui hanno lavorato a stretto contatto dopo l’uccisione di Al-Baghdadi per ristrutturare i vertici del gruppo, insieme ad altri due maggiorenti del movimento, Haji Hamed e Haji Tayseer. Sumaidai era già membro dal 2016 del Comitato Delegato, l’organo esecutivo dell’Isis, al momento dell’ascesa di Al-Qurayshi.
Quando lo Stato Islamico è stato messo alle corde nel 2017, anno in cui le forze curdo-arabe e la Coalizione internazionale a guida Usa hanno conquistato la “capitale” Raqqa, Sumaidai ha lasciato la Siria alla volta della Turchia. Un anno fa è però tornato indietro con l’obiettivo di coadiuvare Al-Qurayshi nel suo tentativo di rivitalizzare il gruppo e a riportarlo ai vecchi fasti. Sumaidai, come spiega New Lines, è attualmente uno degli ultimi “pesi massimi” rimasti all’interno dell’organizzazione. Da una parte, infatti, fa parte di una generazione effettivamente nuova e ambiziosa, dall’altra si è unito all’Isis ben prima del suo apogeo nel biennio 2014-2015. Se non sarà ufficializzato come il leader del gruppo avrà comunque un ruolo di spicco fra i suoi ranghi.
Come già detto, a influire sulla sua possibile nomina c’è anche la questione della discendenza profetica. Non a caso, il “secondo califfo” Al-Qurayshi era oggetto di critiche all’interno dell’organizzazione perché di origini turkmene e non puramente arabe. Per questo aveva abbandonato il suo vero nome, Amir Mohammed Saeed Abdul-Rahman al-Mawla, e scelto gli appellativi Al-Hashimi e Al-Qurayshi, entrambi nomi che rimandano al clan e alla famiglia del profeta Muhammad.
“Avere un leader che proviene dalla famiglia o dalla tribù del profeta è essenziale per la loro pretesa sul Califfato”, spiega Hassan Hassan interpellato da ilfattoquotidiano.it. “Gli aspiranti leader modellano la loro idea sul primo esempio di califfato, in cui i quattro califfi (i cosiddetti “ben guidati”, ndr) provenivano dalla tribù dei Quraysh. Questo requisito è presente in una visione ristretta nell’Islam, ma gruppi come l’Isis credono che i musulmani debbano tornare ai primordi della storia musulmana se vogliono rivendicare la loro gloria e tornare a un Islam più puro”, prosegue l’esperto.
“Alcuni ideologi jihadisti in realtà non credono che questo sia un requisito, ma non rendono pubbliche tali opinioni per paura di essere attaccati da altri jihadisti. Allo stato attuale, l’Isis ha bisogno di rimarcare queste credenziali perché hanno bisogno di rimettere insieme il loro gruppo”, spiega ancora Hassan. “La priorità per il nuovo leader sarà la stessa del suo predecessore, cioè garantire che il gruppo sopravviva all’immensa pressione dopo la sconfitta del califfato territoriale, mantenere la sua capacità di attaccare e crescere per poi rianimare il gruppo nella speranza di conquistare nuove aree quando le condizioni in futuro saranno idonee”.