Trent’anni fa veniva arrestato il “mariuolo” milanese Mario Chiesa. All’arresto seguì – con una sorta di effetto a valanga – la stagione processuale battezzata dai media, con definizioni poi entrate nel lessico nazionale, Tangentopoli o Mani pulite. Oggetto ancora oggi di dispute furibonde.

Dopo un tifo iniziale (far fuori un po’ di avversari era tanta manna per il suo neonato partito…), Silvio Berlusconi scatenò tutta la sua potenza massmediatica e non solo per propagandare, contro Tangentopoli, la tesi di “un’azione lungamente studiata dai comunisti, che hanno introdotto nella magistratura elementi propri, i quali hanno costituito una corrente che ha fatto politica attraverso indagini, processi, sentenze”. All’opposto, secondo la trionfalistica definizione di altri (anche magistrati), fu una rivoluzione per via giudiziaria, che determinò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.

In realtà non fu né l’una né l’altra cosa ma, più semplicemente, l’emergere in sede giudiziaria dell’intreccio, diffuso e all’apparenza inarrestabile, tra malaffare e settori dell’amministrazione, dell’imprenditoria e della politica diretto prevalentemente (ancorché non soltanto) al finanziamento di quest’ultima. La conferma (di fonte ed epoca non sospette) viene da Bettino Craxi, il quale, intervenendo alla Camera il 29 aprile 1993 nel dibattito sulla concessione della autorizzazione a procedere nei suoi confronti per sei episodi di corruzione, non negò i fatti ma si limitò a chiamare in correità il Parlamento: invitando chi non avesse “preso soldi” per finanziare la politica ad “alzarsi in piedi” (provocando – va detto – non già l’indignazione generalizzata dei colleghi, ma il rigetto, a maggioranza, di ben quattro delle autorizzazioni richieste…).

Certo le inchieste non furono – né avrebbero potuto essere – un’operazione indolore: si moltiplicarono comunicazioni giudiziarie e arresti di politici di primo piano; molti enti pubblici furono decapitati di presidenti e amministratori. Fu, dunque, un terremoto. Ma il problema è: fu un terremoto fondato su fatti, o su sospetti infondati, o su forzature, o su impropri teoremi? La risposta sta negli esiti processuali, oggi, a trent’anni di distanza, agevolmente controllabili. Essi dicono che Tangentopoli non è stata, sul versante giudiziario, una stagione di persecuzioni, ma il doveroso dispiegarsi del principio di obbligatorietà della azione penale e di un controllo di legalità diffuso. Con esiti che vanno onestamente valutati al netto delle troppe comode prescrizioni, spesso facilitate dalla concessione a piene mani di attenuanti; e al netto delle tante assoluzioni perché il fatto non costituisce “più” reato (i falsi in bilancio cancellati a partita in corso da leggi ad personam compiacenti).

Piuttosto va rimarcato che dal sogno di una palingenesi nazionale, a partire dall’arresto di Chiesa, si è passati all’indifferenza se non peggio di oggi. La crisi di fiducia nei partiti e nel Parlamento (spietatamente scolpita nel massiccio e crescente astensionismo) sembra irreversibile. Persino peggiore è la crisi della magistratura, evidenziata dagli intrallazzi di Luca Palamara e dalla riduzione dell’Anm e del Csm a un mercato delle vacche. Mentre nella pubblica amministrazione la corruzione è ancora di casa, opera di quei soggetti (secondo Davigo) che sono scampati alle inchieste diventando i più veloci e i più resistenti.

Sicché gli anni di Mani pulite, anni di mobilitazione e di speranza, sono ora anni di delusione. Con il pericolo – per dirla con Ilvo Diamanti – che si diffonda un sentimento di assuefazione più che di rassegnazione; un senso di abitudine che rischia di annebbiare e avvolgere i fatti di corruzione fino a renderli “normali” ai nostri occhi. Quasi “banali”.

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