Il processo a Carlo Giovanardi su cui si è pronunciato il Senato, votando a favore dell’insindacabilità dell’ex parlamentare, è in realtà un processo a 12 persone accusate a vario titolo di minacce a corpo amministrativo dello Stato e rivelazione di segreti d’ufficio. Processo che si avvia a conclusione a Modena, davanti al Tribunale presieduto dal giudice Pasquale Liccardo, al quale il Senato dovrà ora comunicare l’esito del voto. Già nell’udienza di lunedì 21 febbraio sapremo cosa deciderà di conseguenza il collegio, che potrebbe in teoria presentare un ricorso alla Corte costituzionale per conflitto di poteri.
La prima richiesta di rinvio a giudizio di questa vicenda – che affonda le radici nei terremoti del 2012 in Emilia Romagna – è datata 7 giugno 2018. Porta le firme dei due pubblici ministeri del processo Aemilia, Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, che hanno messo all’angolo la ‘ndrangheta emiliana guidata dai Sarcone e dai Grande Aracri, ottenendo più di mille anni complessivi di reclusione tra rito ordinario e abbreviato. Negli anni dal 2013 al 2015, scrissero i due sostituti procuratori antimafia, l’allora esponente del Nuovo Centrodestra Carlo Giovanardi cercò di aiutare la famiglia dell’imprenditore Augusto Bianchini a ottenere la riammissione alla white list della prefettura modenese per le sue aziende, escluse dai lavori di ricostruzione post-sisma a causa dei rapporti con esponenti della mafia. Assieme a Giovanardi, secondo l’accusa, operarono figure delle istituzioni – i funzionari della Prefettura di Modena Mario Ventura e Daniele Lambertucci – il funzionario dell’Agenzia delle Dogane Giuseppe Marco De Stavola, un avvocato (Giancarla Moscattini) e quattro sedicenti appartenenti ad “ambiti riservati dello Stato”, cioè servizi segreti, che lavoravano per la ditta Safi srl di Milano. All’epoca era contestata agli indagati anche l’aggravante del metodo mafioso, poi caduta, mentre restano in piedi le aggravanti dell’abuso di potere, della continuità del reato e dell’ingiusto profitto.
Sempre secondo l’accusa – oggi riproposta dai pm di Modena Giuseppe Amara e Monica Bombana – l’ex senatore arrivò a minacciare in colloqui riservati figure di rilievo pubblico come il comandante dei carabinieri di Modena, colonnello Stefano Savo, e il collega comandante del Reparto operativo, colonnello Domenico Cristaldi. Il muro da incrinare era rappresentato dal Girer, il Gruppo interforze costituito all’indomani delle violente scosse del 2012 in Pianura Padana. Aveva l’obiettivo di contrastare la criminalità organizzata nei suoi prevedibili tentativi di assalto agli appalti della ricostruzione e ne facevano parte esperti della Direzione antimafia, Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza. Fu il Girer a spingere il prefetto di Modena Benedetto Basile a firmare l’interdittiva contro la Bianchini Costruzioni srl nel 2013. Fu contro il Girer – in particolare contro il suo pilastro ritenuto più ostico, i Carabinieri – che secondo le indagini della Direzione Antimafia si scagliò Giovanardi.
Il senatore, secondo l’accusa, conosceva in anticipo movimenti e provvedimenti delle forze dell’ordine grazie al lavoro di Ventura, capo di gabinetto della Prefettura, e del funzionario dell’Agenzia delle Dogane De Stavola. Presentò sulla vicenda due interpellanze parlamentari, la prima il 22 luglio 2014 e la seconda il 21 ottobre. Partecipò con i Bianchini a una conferenza stampa che attaccava il ricorso alle interdittive e contattò più volte le più alte autorità delle forze di Polizia, pur senza averne titoli o mandato. Degenerando secondo la Direzione distrettuale antimafia in “pressioni e minacce anche esplicite nei confronti dei singoli componenti del Gruppo interforze”, in “pressioni e dirette minacce al prefetto pro-tempore di Modena Michele Di Bari, aggredendolo verbalmente”, e nelle “minacce dirette e gravi ai due ufficiali superiori dell’Arma dei Carabinieri”, Savo e Cristaldi. Nel proprio ufficio, il 18 ottobre 2014, Giovanardi parla proprio di loro ai Bianchini, che riprendono la conversazione con una telecamera nascosta. Dice di aver capito chi è che pone ostacoli: “Sono i Carabinieri, si capisce benissimo! E con loro ho avuto un’ora e mezzo di discussione kafkiana, perché… è come parlare con il muro”.
La mezz’ora kafkiana è una conversazione con i colonnelli durante un incontro richiesto dallo stesso senatore, senza alcuna cautela, in un bar di Modena. Ne riferisce in aula Domenico Cristaldi nella recente udienza del 6 novembre 2021: “Io onestamente ho ancora dentro l’imbarazzo di trovarmi in uniforme, in un bar, in un contesto pubblico, a subire un atteggiamento deciso, ecco, molto deciso, molto perentorio da parte di un senatore della Repubblica… Mi viene da dire: un tono intimidatorio… Fu un’ora di atteggiamenti, parole e frasi che davano pochissima possibilità al Comandante provinciale (dei Carabinieri) di poter intervenire e controbattere… Non ho mai provato una esperienza del genere, molto imbarazzante, molto fastidiosa”. Più tardi, nella stessa udienza, è l’avvocato difensore di Giovanardi, Maralisa Tenace, a chiedere allo stesso Cristaldi: “Ma lei cosa intende per intimidatorio?”. Cristaldi: “Un tono arrogante e prevaricante come quello che è stato utilizzato, senza lasciare spazi alla parte che pure veniva ingaggiata per un contraddittorio. Ma quando accennava a una risposta non le veniva consentito di proseguire. Tra l’altro utilizzando un intervento che non doveva assolutamente esistere perché la funzione (dell’onorevole Giovanardi, ndr) non gli consentiva di intervenire in un procedimento amministrativo, con una istruttoria ancora in corso in una fase cruciale, dove l’unico punto d’arrivo auspicato (sempre da Giovanardi, ndr) forse era quello di poter ottenere una revisione della posizione dell’Arma. Quindi, se non è atteggiamento intimidatorio questo, io non so come altro definirlo”.
Le ricostruzioni dell’accusa raccontano che il nuovo prefetto di Modena, Michele Di Bari, accettò di riconvocare il Gruppo interforze ben otto volte tra l’agosto 2014 e il gennaio 2015, pur senza elementi di novità, per valutare la riammissione dei Bianchini alla white list. Ma il muro dei Carabinieri resistette e il 28 gennaio 2015 arrivarono i 117 arresti disposti nell’ambito della operazione Aemilia che portarono provvisoriamente in carcere anche Augusto Bianchini, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La moglie e il figlio finirono ai domiciliari. Le sentenze di Aemilia dicono che dopo il terremoto del 2012 la Bianchini costruzioni aveva fatto man bassa in modo illecito di appalti diretti nei lavori di ricostruzione grazie al rapporto privilegiato con un dirigente del comune di Finale Emilia, Giulio Gerrini, a propria volta condannato definitivamente a 2 anni e 4 mesi di carcere.
Augusto Bianchini è stato condannato a 9 anni di carcere in appello il 17 dicembre 2020, quale concorrente esterno dell’associazione di ‘ndrangheta. Condannato in appello anche il figlio di Augusto, Alessandro (1 anno e 6 mesi). Molti dei lavoratori impegnati nei loro cantieri, dice la sentenza, erano reclutati da uno dei capimafia condannati in Aemilia (Michele Bolognino, 21 anni e 3 mesi in appello), grazie alle relazioni storiche della famiglia Bianchini con uomini della ‘ndrangheta, e pagati attraverso l’emissione di false fatture per operazioni inesistenti. Per lo stesso reato è stata condannata anche la moglie di Augusto Bianchini, Bruna Braga (2 anni e 2 mesi). Ad “annientare” la Bianchini Costruzioni srl, secondo i giudici, non sono stati la Prefettura o i Carabinieri che dicevano no alle richieste pressanti di Giovanardi per riammettere l’impresa alla white list, ma i comportamenti illeciti dei suoi amministratori condannati. E quelle che per il Senato sono le “insindacabili opinioni” di Giovanardi, per i comandanti dei Carabinieri erano “intimidazioni pronunciate con tono arrogante e prevaricante”.