L'ANALISI - Per capire il nocciolo della questione bisogna guardare da vicino cosa sono i lavori che danno diritto a questi bonus. E poi che differenza c'è tra i prodotti bancari a sostegno del bonus e la compravendita di crediti fiscali? Come funzionano i controlli? E allo Stato conviene?
Si fa presto a dire Superbonus, truffe, mancati controlli e a tirare le somme. La realtà delle detrazioni fiscali legate alle ristrutturazioni edilizie nella sua recente evoluzione è molto più complessa di come la dipingono i politici e i lobbisti. E capire di cosa parlano non è facile se non si conosce la materia. Da una parte infatti c’è l’aspetto tecnico, edilizio o energetico che caratterizza l’intervento. Più è semplice, più le truffe sono facili. Dall’altra c’è quello finanziario: un conto è vendere un credito fiscale dopo essersi pagati i lavori di tasca propria e un conto è farsi fare un prestito per fare i lavori e garantirlo con il credito che sarà creato dopo i lavori. Intorno a tutto c’è un attore fondamentale, il debitore, lo Stato, che dal commercio dei crediti ha tutto da perdere.
Quello del mercato dei crediti fiscali è un tema dibattuto da moltissimi anni: da una parte avrebbe dovuto sbloccare l’edilizia, dall’altra ogni volta che è stato messo in moto si è risolto in un niente di fatto perché non c’era possibilità di scambio tra privati. Poi è arrivato il bonus facciate che ha fatto un po’ da ariete ed è passato sotto traccia per l’esplosione della Pandemia. Introdotto con la finanziaria per il 2020, nella sua versione originale prevedeva la possibilità di farsi ridare dallo Stato addirittura il 90% – contro il 50% delle normali ristrutturazioni – del denaro speso per i lavori sostenuti per sistemare la facciata degli edifici. Non solo il colore, ma anche balconi, lattonerie, ponteggio, rimozione delle macerie, spese tecniche. È vero c’era anche il cappotto, ossia il rivestimento termico dell’edificio soggetto a parametri molto stringenti, poi confluito nel 110%. Ma la maggior parte degli interventi coperti dal bonus non richiedeva particolari caratteristiche tecniche o certificazioni e asseverazioni. Raramente anche una pratica edilizia. Unica condizione ostativa era che le modifiche fossero visibili da strada e che l’edificio non si trovasse in periferia. Nessun tetto di spesa e nessuna certificazione da esibire tranne che per le spese di riqualificazione energetica.
Insomma, il bengodi, di cui inizialmente hanno approfittato in pochissimi perché appena approvata la norma c’è stato il lockdown. Poi se ne sono accorti in tanti. Non è un caso che il 46% delle truffe riconducibili al commercio di crediti fiscali siano legate al bonus facciata che in teoria potrebbe essere camuffato da chiunque abbia un cantiere aperto. Figuriamoci da professionisti della truffa che in Italia non mancano mai. Seguono per lo stesso motivo le agevolazioni per le normali ristrutturazioni della prima casa per le quali c’è un tetto di spesa di 96mila euro, ma non sono necessarie particolari certificazioni a parte la pratica edilizia. Il 110%, invece, è un altro pianeta ed è abnorme non solo in termini dimensioni del credito fiscale che genera, ma anche di certificazioni e asseverazioni da produrre. Riguarda infatti esclusivamente interventi sul risparmio energetico (coibentazione del tetto, cappotto, caldaia, finestre, fotovoltaico, etc) che sono da sempre oggetto di certificazioni specifiche alle quali la ghiotta agevolazione ha aggiunto una sorta di perizia iniziale e finale da parte di un tecnico qualificato, oltre a un’asseverazione del direttore dei lavori e una del fiscalista. Tutti responsabili e/o perseguibili per eventuali dichiarazioni errate o mendaci.
In pratica per riscuotere il credito del 110% bisogna consegnare una pila di documenti che fa invidia a un notaio. Senza contare che il piano dei lavori deve rispettare una scaletta ben precisa e stare dentro tetti di prezzo predefiniti. Un gioco che varrebbe la candela comunque, non fosse che i condomini italiani sono impazziti e si sono messi a fare interventi non sempre necessari, ma che essendo di fatto gratis era un peccato non farli. E così le imprese sono andate in tilt e non riescono a star dietro alla domanda.
In tutto questo il sistema bancario ha trovato l’affare mettendo a punto prodotti finanziari per far fare i lavori al cliente con gli interessi e poi comprare il credito. Che è certo solo se i lavori rispondono alle richieste dello Stato. Quindi tutte le pratiche vengono sottoposte a un’analisi preventiva da parte di multinazionali della consulenza. Non solo, nella maggior parte dei casi gli istituti fanno firmare al cliente una liberatoria che lo impegni nel caso in cui il credito venga misconosciuto dall’Agenzia delle Entrate per qualsiasi motivo. Fermo restando che il cliente deve essere in grado di ripagare l’istituto che ha finanziato i lavori nel caso in cui ci siano problemi con la congruità rispetto ai parametri del bonus. In altre parole nessuna banca finanzia i lavori per il 110% a persone che non sarebbero in grado di pagarseli da soli. Da qui i mitici controlli del sistema creditizio.
Diverso il discorso di Poste Italiane che ha puntato molto sull’acquisto diretto dei crediti, cioè ha comprato il credito da chi si era finanziato i lavori da sé anticipando il denaro che il cittadino o l’impresa avrebbe incassato a rate di cinque anni dallo Stato mettendolo in dichiarazione dei redditi. Un commercio fatto anche dalle altre banche che però hanno dato priorità ai finanziamenti perché più remunerativi. L’istruttoria in questo caso è stata la medesima che viene effettuata in sede di dichiarazione dei redditi: si attende l’ok dell’Agenzia delle Entrate che riceve la dichiarazione di cessione del credito dal contribuente e l’eventuale documentazione per altro già in possesso dell’Agenzia, almeno per la parte contabile trattandosi di fatture elettroniche e bonifici cosiddetti parlanti. Questo perché si tratta “solo” di anticipare il credito che lo Stato normalmente ridà in tot anni (5 per il 110% e 10 per gli altri).
E qui si arriva alle ragioni dello Stato. Da una parte ci sono i controlli che possono essere fatti entro dieci anni, come la stessa Agenzia delle entrate aveva sottolineato a ilfattoquotidiano.it a fine 2020 quando questo giornale si era interrogato proprio sul controllo della qualità dei crediti e in particolare sul quelli maturati senza certificazioni e asseverazioni, cioè il bonus facciata. A domanda: “Confermate anche che la procedura di creazione del credito e la sua monetizzazione è automatica in seguito all’invio dell’apposito modulo all’agenzia?”, la risposta era stata che “la procedura è online ed automatica…poi i tempi e i controlli sono un’altra storia”.
Altro punto non secondario e ben noto tanto alla Ragioneria di Stato quanto al ministro Franco, così come molto probabilmente al capo del governo, è che i crediti fiscali così monetizzati non sono più dei probabili/possibili debiti dello Stato nei confronti di cittadini e/o imprese, che nell’arco dei canonici dieci anni di incasso in dichiarazione dei redditi possono perdere il diritto a riceverli, ma diventano certi e immediatamente liquidabili. E questo può essere un problema, anche serio, per le casse pubbliche.