Dopo la Russia, la Cina. L’Argentina amplia gli orizzonti e stringe nuove alleanze, preoccupando gli Stati Uniti. Sullo sfondo, la difficile trattativa con il Fondo monetario internazionale sul debito ereditato dall’ex governo di orientamento neoliberista guidato da Mauricio Macri. Si muove tra fili sottili e delicati equilibri, il presidente peronista Alberto Fernández, che ha portato l’Argentina sulla via della Seta cinese, provando a dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Mentre il Paese, fiaccato dalla pandemia, soffre la crisi: povertà sopra il 40% e inflazione al 50%. Domenica 6 febbraio, a Pechino, il presidente argentino Fernández ha ufficializzato con il suo omologo cinese Xi Jinping l’ingresso del Paese sudamericano nella Nuova Via della Seta, unendosi agli altri 140 paesi che ne fanno già parte. Un megaprogetto che garantirà investimenti per 23,7 miliardi di dollari (20,7 miliardi di euro) da parte cinese, nel 50esimo anniversario delle relazioni diplomatiche fra Argentina e Cina. Dieci le infrastrutture già in programma, tra cui Atucha III, la quarta centrale nucleare argentina: un’opera il cui valore è stimato in 8,3 miliardi di dollari e che Pechino ha promesso di realizzare in pochi anni a Lima, piccolo paese della provincia di Buenos Aires.

Un’alleanza di peso, quella consolidata da Fernández durante la sua prima visita da presidente in Cina, ospite d’onore alle Olimpiadi invernali. Oltre alla centrale nucleare, che nei piani dovrebbe “fornire elettricità con energia pulita e sostenibile”, tra i due paesi sono stati siglati 13 documenti di cooperazione in vari settori, tra cui sviluppo sostenibile, economia digitale, tecnologia, cultura, istruzione e agricoltura. Un accordo che consolida la posizione del Dragone come secondo partner commerciale di Buenos Aires, il primo tra i non aderenti al Mercosur.

Fernández, che dal 7 gennaio ricopre anche il ruolo di capo della Celac (la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici), ha concluso il suo tour alle Barbados, incontrando la prima ministra Mia Mottley. Ma pochi giorni prima era stato ricevuto da Vladimir Putin a Mosca, rinsaldando l’amicizia tra i due paesi. Nell’occasione, ringraziando il presidente russo per aver “salvato vite” con l’invio del vaccino Sputnik quando “le dosi scarseggiavano”, il presidente argentino ha proposto a Putin di considerare l’Argentina come “una porta d’entrata” in America Latina. Dall’altro lato, la Russia potrebbe rivelarsi, sempre a detta di Fernández, il partner giusto per “ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti e dal Fmi”, a cui l’Argentina deve 44,5 miliardi di dollari. Un debito enorme, contratto nel 2018 dal predecessore di destra Mauricio Macri (alla Casa Rosada, ovvero il palazzo presidenziale, dal 2015 al 2019) che, a sua volta, aveva raccolto il testimone di una finanza pubblica disastrata da Cristina Kirchner. Una lunga storia per un paese che nella sua storia conta ben otto default sul suo debito, ne sanno qualcosa anche i risparmiatori italiani particolarmente scottati dal crack del 2001.

A Washington, nel frattempo, le mosse di Fernández non sono molto gradite. Due senatori, il repubblicano Marco Rubio e il democratico Bob Menéndez, hanno presentato al Congresso Usa un disegno di legge per frenare “l’impatto destabilizzante” e “l’influenza malvagia” di Cina e Russia in America Latina. “Interferenze” che gli Stati Uniti vedono come “una minaccia”, ma che non spaventano Fernández, deciso a difendere il multilateralismo argentino. D’altronde, il leader cinese Xi Jinping ha fatto subito da sponda alle rivendicazioni argentine sulle isole Malvinas (Falklands per il Regno Unito). Dopo la Brexit, Buenos Aires spera di portare dalla sua parte anche la Ue in questa battaglia,40 anni dopo la guerra tra Londra e Buenos Aires nell’Atlantico meridionale.

Ma la vera questione è il debito argentino. Dal 2020, il presidente peronista ha avviato una dura trattativa con il Fmi, approdata lo scorso 28 gennaio a un accordo che è già stato approvato dal board del Fondo ma deve ancora ottenere il via libera del Congresso argentino. “Avevamo un cappio al collo e ora abbiamo una strada da percorrere”, così Fernández ha presentato l’intesa, che dovrebbe durare due anni e mezzo (più o meno la durata del suo mandato), con revisioni trimestrali. Secondo l’attuale inquilino della Casa Rosada, l’accordo non incide sulle pensioni, non implica una riforma del lavoro, consente gli investimenti pubblici e non impone di azzerare il deficit. La posizione del governo, infatti, era di non disponibilità ad applicare le classiche politiche imposte dai piani di aggiustamento strutturale. Ma non tutti, in Argentina, approvano l’operato del governo al tavolo negoziale. Ne è un esempio Máximo Kirchner, figlio di Néstor e Cristina (oggi vicepresidente dell’Argentina), dimessosi dalla presidenza del gruppo dei deputati del Frente de Todos, il partito peronista del presidente, in dissenso con l’intesa con il Fmi (“soffoca l’economia argentina”). Anche il Fronte unitario di sinistra, insieme a varie sigle sindacali, ha manifestato in Plaza de Mayo e in altre città del paese contro l’accordo.

Il Fmi, in effetti, stanzierà gli aiuti necessari a pagare entro le scadenze, ma in cambio chiede alcuni interventi sui conti argentini: il Paese sudamericano, infatti, dovrà ridurre gradualmente il deficit fino allo 0,9% entro il 2024, aumentare i tassi di interesse, incrementare le entrate fiscali e riformare il sistema di sussidi energetici. La prima tranche del maxi debito sarà restituita con un pagamento di 731 milioni di dollari. Ma se per Fernández l’accordo non inficia “lo sviluppo” del Paese, i contrari non solo prevedono inflazione alle stelle, aumento della povertà e diminuzione di salari e pensioni, ma contestano la legittimità dell’accordo, basato su “valutazioni inadeguate e obiettivi irrealistici”. La partita non è ancora chiusa.

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