Hanno lanciato una petizione e in poco più una settimana hanno già raccolto quasi tremila firme per chiedere alla Asl Roma 3 di assumere almeno una cinquantina tra neuropsichiatri infantili, psicologi dell’età evolutiva, assistenti sociali, logopedisti e altre figure di sostegno per bambini e adolescenti con disabilità. Siamo nell’area del litorale romano, che da Ostia e Fiumicino si estende anche ai Municipi XI e XII, abbracciando quartieri popolosi come Portuense e Monteverde. L’esasperazione delle famiglie che hanno a carico figli disabili è altissima. Gli ultimi pensionamenti, considerato che ciascun neuropsichiatra del Servizio sanitario regionale (Ssr) segue anche fino a 1.500 bambini, hanno mandato in tilt il sistema costringendo i genitori a una guerra per la sopravvivenza. “Da quando c’è la pandemia, poi, la Regione Lazio pensa solo al Covid, noi siamo completamente abbandonati”, sospira Maurizio, padre di due adolescenti disabili. L’allarme più preoccupante riguarda la dispersione scolastica. “Se non sono accompagnati e seguiti fin da bambini, questi ragazzi non si iscrivono alla scuola superiore e finiscono in strada. Sono condannati dalla nascita”, dice Bruna, insegnante di scuola elementare specializzata nel sostegno agli studenti con disabilità.
Dieci anni per una certificazione – Michela ha tre figli affetti da disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa). Il più grande ha anche una patologia autoimmune rara che comporta crisi neurovegetative che mettono a rischio la sua vita. Il ragazzo oggi ha 19 anni, quando ne aveva sette è stato preso in carico da un neuropsichiatra del Ssr. Ha atteso, però, dieci anni per avere una certificazione della patologia presso il Servizio tutela salute mentale e riabilitazione dell’età evolutiva, passaggio necessario per accedere ai percorsi scolastici individuali e ad altri servizi pubblici dedicati ai disabili. Nel frattempo Michela e suo marito hanno pagato quasi tutto, dalle cure alla formazione del ragazzo: logopedista, fisioterapista, psicologo, un tutor per assisterlo negli studi. E lui si è diplomato con 80 su 100 all’istituto tecnico informatico. “Sono orgogliosissima, ma è stato faticoso, abbiamo fatto tutto da soli”, racconta Michela, che per far studiare il figlio ha lasciato il proprio lavoro: così la famiglia, dieci anni fa, è diventata monoreddito. “Passavo le giornate fuori alla scuola, dovevo intervenire entro tre minuti per salvare la vita a mio figlio in caso di crisi, perchè non c’era nessuno in grado di farlo a scuola”, aggiunge. Oggi le punture di immunoglobulina, necessarie alla sopravvivenza del ragazzo, gliele somministra lei. Sul mercato hanno un costo di circa ottomila euro a dose. “Ho dovuto combattere con decine di porte sbattute in faccia perché gli riconoscessero la terapia farmacologica. Per qualunque procedura serve la certificazione di uno specialista del Servizio tutela salute mentale: in dodici anni sono riuscita a farne soltanto una”. Anche le altre due figlie di Michela, di 16 e 14 anni, seguono una terapia farmacologica, una è stata sulla sedia a rotelle per un periodo, non hanno uno specialista del Ssr che le segue da quando è andato in pensione il neuropsichiatra che li ha seguiti per anni. “Ora facciamo tutto tramite privati, i costi sono altissimi”, dice Michela.
“Lo specialista non c’è più e non possiamo permetterci il privato” – Una singola visita da uno specialista, infatti, va dai 150 ai 250 euro. Per questo non se la passano meglio Maurizio e Giulia, che di figlie ne hanno due, una di 16 e l’altra di 14 anni. La più grande frequenta il liceo classico, è affetta da sindrome di Williams e autismo, la più piccola studia scienze umane e ha sia disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd) che Dsa. Maurizio ha ripreso da pochi mesi a lavorare, è un ex dipendente Alitalia schiacciato dalla crisi della compagnia. A lungo hanno fronteggiato i costi altissimi delle cure e della formazione delle due ragazze con un solo stipendio. “Ci hanno aiutato i nostri genitori, senza non ce l’avremmo fatta e comunque abbiamo dovuto rinunciare a molto: non potevamo pagare tutti gli specialisti di cui avevano bisogno le bambine”, racconta Giulia. Considerate le patologie della figlia più grande “una scuola valeva l’altra, quindi abbiamo optato per il classico”. La 14enne, invece, “grazie a tutte le cure, ha fatto dei passi in avanti, ora sogna di fare la logopedista”. Ma con la pandemia la situazione si è complicata. “A febbraio, appena finita la terza media, in pieno lockdown e con la ragazza in farmacoterapia, ci hanno detto di andare da un privato, lo specialista che la seguiva non era più in servizio presso la Asl”, spiega il padre, Maurizio.
“Mio figlio seguito per nove mesi scarsi” – Cristina e suo marito sono entrambi disoccupati: hanno perso il lavoro a causa della pandemia. Hanno un figlio di 16 anni affetto da grave disturbo da deficit dell’attenzione misto a Dsa, con una sindrome genetica rara in corso di accertamento. “Il periodo delle scuole elementari e medie è stato un vero e proprio buco nero, abbiamo speso almeno diecimila euro nei primi anni in cui gli è stata diagnosticata la malattia”, racconta Cristina. “Mio figlio era stato preso in carico dal Ssr ma poi è stato lasciato. La scuola non aveva le figure in grado di portare avanti le terapie che lo psichiatra prescriveva. Per questo, anche scegliere la scuola superiore è stato difficile. Alla fine abbiamo optato per un istituto tecnico, un liceo sarebbe stato insostenibile economicamente per il numero di tutor specializzati che avremmo dovuto affiancargli”. E comunque la situazione è complessa. “Siamo a febbraio e non ancora abbiamo ricevuto il Pei che va consegnato a fine ottobre dalla scuola”, spiega. Il Pei è il Piano educativo individuale che viene modulato sulle esigenze dello studente con difficoltà nell’apprendimento. Per stilarlo la scuola ha bisogno di una diagnosi certificata da uno specialista del Servizio tutela salute mentale. Il figlio di Cristina è stato seguito da un neuropsichiatra infantile del Ssr “per nove mesi scarsi da bambino, intorno ai sette anni”. Tra visite private e lunghe attese per il riconoscimento della diagnosi, ora è riuscita a ottenere 18 ore di sostegno settimanali, a fronte di 27 ore di lezione sul percorso scolastico part time: lo ha preferito a quello full time da 40 ore perché “non può stare da solo in classe troppo a lungo”.
Gli insegnanti: “Lasciati soli, non abbiamo la formazione adatta” – Gli insegnanti hanno svolto anche un sondaggio nel territorio del Municipio X, quello di Ostia e Acilia, e hanno rilevato che il 99,7% delle famiglie con figli disabili nel territorio sostiene che i servizi di assistenza abbiano bisogno di nuove assunzioni. Ancora: il 97% dice che è difficilissimo accedere ai servizi specialistici per la salute mentale dedicati, il 98% ritiene che il servizio, pure quando c’è, non è adeguato. Dall’ipotesi di diagnosi effettuata da un medico privato alla certificazione ratificata dal Servizio tutela, nel 69% dei casi si aspetta oltre un anno, nel 17% dei casi poco meno. Il 68% delle famiglie non è mai stato contattato dalla Asl. L’86% delle famiglie si dice insoddisfatto della presa in carico e vorrebbe che il neuropsichiatra potesse intervenire nella redazione dei piani scolastici e alle riunioni con la scuola, da tenersi tre volte l’anno, per monitorare il processo evolutivo e formativo del bambino. “Non avviene nulla di tutto questo per mancanza di personale, le liste d’attesa sono infinite”, racconta Amelia Sansone, referente regionale del coordinamento dei presidenti dei Consigli di istituto di Roma e del Lazio, che ha condotto la ricerca. “Negli altri Stati ci sono le scuole speciali per i disabili, la scuola in Italia è invece fiore all’occhiello in termini di inclusione. Però lo è solo sulla carta. Non soltanto le famiglie, anche gli insegnanti vengono lasciati completamente soli“, spiega la maestra Bruna. “Ci sono docenti che non hanno alcuna formazione per fare sostegno e vengono messi accanto a ragazzi autistici che magari hanno crisi e urlano. Altri che si dividono due ore qui e due ore lì. Il monte ore non è sufficiente, molti genitori di ragazzi disabili scelgono il part time perché non possono lasciarli a scuola senza assistenza per troppe ore. I neuropsichiatri hanno così tanti bambini in carico che non se ne ricordano neanche il volto o il nome”, racconta.
La Asl: “Percorsi tampone per una risposta immediata” – Giovedì 17 febbraio le famiglie hanno messo in atto un flash mob a Casal Bernocchi, davanti alla sede territoriale dell’Asl Roma 3. Alla protesta ha partecipato anche il Movimento 5 stelle, sia municipale che capitolino. “Invitiamo le altre forze politiche a raggiungerci, è una battaglia a difesa del diritto alle cure”, spiega a nome del gruppo Alessandro Ieva, consigliere del Municipio X. Raggiunta da ilfattoquotidiano.it, intanto, la dirigente dell’Asl Francesca Milito rassicura: “La difficoltà che abbiamo avuto è data dal fatto che non esistono graduatorie per questa tipologia di specialisti. Stiamo cercando percorsi alternativi e contiamo in una decina di giorni di dare una risposta. Abbiamo contezza della necessità, che si è amplificata da quando è andato via uno specialista che aveva tanti pazienti in carico. Stiamo ipotizzando percorsi tampone per risolvere le criticità nell’immediato. Ci tengo a dire che sono vicina alle famiglie e infatti ce ne stavamo già occupando, ma ci sono dei tempi tecnici, siamo un ente pubblico. Sul lungo periodo ci saranno nuove assunzioni a tempo indeterminato”.