Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“L’allenatore per essere un buon maestro deve prendersi cura dei propri atleti. Io ricordo con affetto soprattutto Paolo Bessi, che mi allenò a Prato a fine anni Ottanta. Era stato un numero dieci della Pistoiese in Serie C e mi ha insegnato molto”. Milena Bertolini è il ct della Nazionale di calcio femminile che nel 2019 ha disputato il Mondiale dopo 20 anni di assenza. È stata un’ottima calciatrice, difensore di Serie A e dell’Italia, prima di una lunga gavetta come allenatrice. Dal 2017 è seduta sulla panchina azzurra.

“Bessi era molto severo e talvolta anche duro dopo certe partite. Trent’anni fa i modelli culturali e quelli educativi dei genitori e degli allenatori erano diversi da adesso, oggi infatti si tende ad essere più morbidi. Mi insegnò la marcatura, ad essere determinata e anche ruvida sull’avversaria. Durante le partitelle in allenamento lo marcavo sempre io e i primi mesi non vedevo palla, ma a fine stagione ero talmente migliorata che non mi saltava mai. Inoltre mi illuminò sul fatto che un difensore dovesse anche saper giocare la palla: migliorai tanto anche sotto quell’aspetto, fermandomi dopo gli allenamenti a fare esercizi con il pallone sul muro. Ho saputo della sua scomparsa il giorno del sorteggio mondiale a Parigi”.

La lezione che si è portata dietro da allora?
“Che l’allenatore deve prendersi cura, magari in modo diverso con ognuna, di tutte le giocatrici. Perché l’atleta queste cose le percepisce, dà disponibilità e quindi migliora”.

Lei ci riesce sempre?
“Ci provo, però mi è capitato anche di non farcela. Al Mondiale in Francia ho vissuto delle settimane all’interno di un frullatore perché in quelle situazioni non c’è solo la squadra da gestire ma anche l’esterno. Forse ho dedicato poco tempo a qualcuna delle 23, a quelle che hanno giocato meno. Nei club hai certamente più ore disponibili, ma io anche in Nazionale mi pongo sempre lo stesso obiettivo”.

Come si è formata come allenatrice?
“Sono soprattutto una autodidatta. Guardavo molte partite e con la mia compagna di squadra Federica D’Astolfo, oggi pure lei allenatrice, parlavamo tanto di calcio, analizzando e studiando il più possibile. Ho sempre avuto una gran passione per questo ruolo, già a 18 anni tenevo un diario dove segnavo tutto, inoltre ho iniziato presto a lavorare nei settori giovanili e come preparatore atletico nei dilettanti”.

Quindi tanto calcio maschile?
“Sì, ho studiato molto Zeman, Ancelotti e Guardiola. Di Zeman mi sono portata dietro la sua mentalità offensiva e la cultura del lavoro. Di Ancelotti mi piace molto la sua capacità di entrare in relazione con i suoi giocatori. Guardiola è l’essenza del gioco. Per la mia tesi al corso di allenatore Uefa Pro sono stata alla Masia per studiare il Barcellona. Il suo calcio si sposa bene con quello femminile visto che le ragazze riescono ad esprimere naturalmente eleganza, tecnica e armonia”.

Come riesce a trasmettere le nozioni calcistiche alle giocatrici che allena?
“Una parte delle ragazze che ho in Nazionale le ho allenate in passato anche nei club. Ci conosciamo bene. Io cerco sempre di spiegare loro il significato di quello che fanno perché voglio che in campo sappiano pensare con la propria testa e abbiano sempre la capacità di scegliere: ci sono tante partite all’interno di una singola partita e loro devono essere in grado di trovare sempre una soluzione”.

È difficile?
“Le ragazze in generale sono molto ricettive, hanno voglia di imparare e conoscere. Un allenatore che viene dal maschile si innamora subito del calcio femminile perché trova atlete che ascoltano e questa è una gratificazione non da poco”.

Lei passerebbe al maschile?
“Quando ero in Eccellenza o nel settore giovanile del Modena durante il primo allenamento i ragazzi mi guardavano straniti. Poi la competenza aiuta. Non credo troverei ostacoli insormontabili. Ci sono sicuramente delle differenze per quanto riguarda la gestione delle risorse umane, ma sono le donne ad essere solitamente più complesse e quindi anche più complicate nei rapporti”.

Quali sono le idee calcistiche che cerca di trasmettere?
“Io non trasmetto schemi preordinati, ma lavoro su principi di gioco: l’aggressione immediata, l’occupazione degli spazi, la gestione della palla…”

Il suo ruolo è differente da quello del suo collega Roberto Mancini?
“Sì. Alcune giocatrici arrivano a 18 anni senza aver fatto il settore giovanile e perciò senza alcuni concetti di gioco. È anche per questo che le donne possono migliorare sulle basi anche a 22 anni. Purtroppo non hanno le stesse opportunità dei maschi, anche se qualcosa è cambiato negli ultimi cinque anni e soprattutto dopo il nostro bel Mondiale del 2019”.

Ci sono molti uomini seduti sulle panchine dei club di Serie A.
“Vero, negli ultimi tempi sono arrivati tanti maschi. Questo può rappresentare un problema per l’intero movimento, impoverito dal fatto che non trovino spazio le ex giocatrici che conoscono bene questo ambiente. Non dimentichiamo che anche le dirigenze sono prettamente al maschile. In generale penso che un mondo che non preveda la presenza di molte donne sia più povero e senza futuro”.

Quali sono le giocatrici avute in passate che già mostravano in campo una predisposizione per allenare?
“All’inizio della mia carriera ho allenato tante ragazze che fino a poco prima erano mie compagne. Per la conoscenza del calcio, studio e passione cito Federica D’Astolfo, il portiere Giorgia Brenzan e Manuela Tesse. Dovrei dire anche Rita Guarino, ma con lei ho soprattutto giocato”.

E tra le azzurre di oggi?
“Ce ne sono parecchie che hanno già fatto il corso allenatori. In primis Martina Rosucci, centrocampista che in campo sa ragionare e fuori è molto curiosa. Poi Valentina Cernoia, che conosce il calcio e ama studiare. Vedrei bene anche Elena Linari, Sara Gama e Barbara Bonansea”.

La prossima estate la Nazionale parteciperà al campionato europeo in Inghilterra, poi nel 2023 c’è il Mondiale in Australia e Nuova Zelanda.
“A luglio abbiamo la fase finale dell’Europeo, è un torneo molto difficile: i gironi iniziali sono più competitivi del Mondiale. Basti pensare che in Francia sette squadre su otto qualificate ai quarti erano europee. Passare il girone non sarà una passeggiata, il nostro obiettivo è andare avanti il più possibile. Nel frattempo dovremmo qualificarci al Mondiale, siamo seconde a tre punti dalla Svizzera, con cui abbiamo perso 1-2 decimate dal covid. Passa la prima e per la seconda ci sono i playoff: siamo ancora in ballo per la qualificazione. La Nazionale è fondamentale per il movimento calcistico femminile”.

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