Lo schwa è una vocale neutra il cui uso si sta affermando all’interno del dibattito e del movimento transfemminista queer, nel tentativo di proporre un linguaggio diverso da quello corrente, che vede il predominio del genere grammaticale maschile. Quando in italiano ci rivolgiamo a “tutti” facciamo ricorso a un maschile plurale sovraesteso che, nel porsi come neutro e universale, in realtà occulta la pluralità dei generi e delle identificazioni di genere della popolazione a cui pure mira a rivolgersi. Secondo alcune teorie del linguaggio, l’uso dello schwa (“tuttə”) consentirebbe di aggirare questo pericolo. Nei giorni scorsi, in seguito all’adozione dello schwa (ə) nel bando di un concorso pubblico all’università, è stata lanciata una petizione contro il suo utilizzo, il cui primo firmatario è il linguista e scrittore Massimo Arcangeli.
La proposta di utilizzo dello schwa è solo l’ultima di una lunga serie: dal femminile sovraesteso al posto del maschile (sostituire provocatoriamente “tutte” a “tutti”), fino all’uso della vocale “u”, degli asterischi e di altri segni grafici in sostituzione delle normali desinenze di genere. Tali proposte non mirano a “eliminare” i generi grammaticali, bensì a proporre un linguaggio maggiormente inclusivo nei riguardi di quelle persone o di quei gruppi sociali che non si identificano nel genere assegnato loro alla nascita o che non si identificano in nessuno dei due generi binari, offrendo loro la possibilità di scegliersi il proprio genere grammaticale, senza subirlo.
L’idea di sostituire le desinenze maschili sovraestese con lo schwa ha finora raccolto alcuni consensi, ma siamo ancora ben distanti da un suo utilizzo generalizzato. Questo non ha tuttavia impedito una reazione ostile, evidente nei contenuti e nei toni della petizione, firmata da un buon numero di intellettuali di spicco (fra i quali, ad esempio, Alessandro Barbero e Ascanio Celestini). Nella petizione, “i fautori dello schwa” vengono additati come “una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi”. Molte sono poi le questioni sollevate: “moda del politicamente corretto” e “falsa inclusività”, “deturpazione della lingua”, “difficoltà nella lettura e nella pronuncia”, tanto maggiore – si sottolinea – per “le persone neurodivergenti”.
Su questo ultimo punto è significativo rimandare al controappello promosso dal collettivo Fərocia, costituito da persone neurodivergenti appartenenti alla comunità Lgbtiaq+, dal momento che nella petizione si prende posizione anche al posto loro, senza, però, essere state interpellate. Secondo loro, la maggior parte delle problematiche di lettura di chi ha un DSA (Disturbo specifico dell’apprendimento) sarebbero facilmente risolvibili con l’adeguamento dei mezzi tecnici nell’ambito della didattica. E come mai, si chiedono soprattutto, “l’interesse nei nostri confronti non si espliciti quando i nostri diritti vengono negati, quando si operano brutali tagli all’istruzione e al sostegno”?
Secondo il Laboratorio Smaschieramenti, importante collettivo transfemminista queer attivo a Bologna, la sperimentazione linguistica è un fatto dal valore eminentemente politico, dal momento che contrappone all’imposizione generalizzata e dall’alto del maschile sovraesteso, nuove modalità di espressione linguistica elaborate dal basso. Fin dal 2011, all’interno Smaschieramenti nasce un collettivo formato da persone trans e non binarie che promuove l’utilizzo dell’asterisco in sostituzione delle normali desinenze di genere. Tuttavia, a fronte delle difficoltà pratiche di pronuncia delle parole che terminano con l’asterisco (“tutt*”), del tutto simile a quella delle parole che terminano con lo schwa, si inizia ad affermare all’interno di questo collettivo l’uso della vocale “u” (“tuttu”), in quanto non marcata dal punto di vista del genere, a differenza di tutte le altre vocali, e, soprattutto, pronunciabile. Il punto cruciale “non è l’inclusione all’interno di una normatività che noi destabilizziamo con orgoglio, con la nostra stessa esistenza”. Si tratta, piuttosto, di “un intento eversivo, volto a eliminare il genere maschile onnipresente nel linguaggio” e di “un intento emersivo, che faccia emergere, appunto, le soggettività trans e non binarie”.
Secondo il Laboratorio Smaschieramenti, queste strategie di trasformazione del linguaggio non sono “politicamente corrette”, ma “politicamente eversive”. “Esiste una polarizzazione strumentale a bloccare ogni tipo di cambiamento nella lingua e nella cultura mainstream. Noi però continuiamo a sperimentare perché crediamo che la cultura riproduca se stessa attraverso la ripetizione. Il linguaggio è performativo e la sua trasformazione fa sì che si creino nuove forme di coscienza rispetto a tutto ciò che non è la norma eterosessuale e a tutto ciò che è conservato violentemente anche attraverso la lingua. La lingua è una performance i cui effetti ricadono nel nostro agire quotidiano”.
Anche Federico Zappino, filosofo, traduttore in Italia di Judith Butler e autore del libro Comunismo queer (Meltemi) rimarca il senso politico della sperimentazione linguistica e il suo carattere non “politicamente corretto”. Secondo lo studioso, la petizione “si scaglia contro tutti i segni grafici volti a sostituire il maschile sovraesteso, usando lo schwa come pretesto per neutralizzare ogni processo di trasformazione politica del linguaggio. Il ricorso alla denuncia retorica del politicamente corretto, che è un’arma delle estreme destre, serve solo ed esclusivamente a eludere il portato altamente conflittuale di queste rivendicazioni, nel tentativo di raccogliere i consensi dei gruppi sociali maggioritari per mezzo della stigmatizzazione della trasformazione sociale, che passa anche per la trasformazione del linguaggio”. Secondo Zappino, infatti, “gli intellettuali che accusano le minoranze di genere e sessuali di parlare solo di linguaggio, dovrebbero sapere molto bene che il linguaggio è la base del contratto sociale, e che le questioni linguistiche sono a tutti gli effetti questioni di potere”.
Per il filosofo, le sperimentazioni linguistiche condotte finora servono a indicare “che lì c’è un problema”, offrendo al contempo “uno strumento pratico a coloro che non si riconoscono nei generi grammaticali imposti, affinché nessuna persona o soggettività minoritaria debba annoverare fra i suoi problemi anche quello di non disporre di un linguaggio che la rappresenti”. Anche per Zappino non si tratta di semplice “inclusività”. “L’inclusività preserva infatti interamente il rapporto sociale asimmetrico tra chi può includere e chi subisce l’inclusione”. Si tratta piuttosto di “sperimentazioni sovversive”: “Nessuna oppressione”, sottolinea il filosofo, “ha lasciato così tante tracce nel linguaggio come l’oppressione di genere e sessuale”.
Zappino – che accoglie con favore le sperimentazioni dello schwa, pur preferendovi altri segni grafici e, soprattutto, l’utilizzo del femminile sovraesteso (“sortisce effetti destabilizzanti sull’uditorio etero maschile, a cui non mi va di rinunciare, quando lo uso in pubblico”) – sottolinea altri punti critici importanti. Innanzitutto il fatto che la difficile pronunciabilità di alcuni segni possa effettivamente costituire un problema per la comunicazione, offrendo così il pretesto per polemiche e petizioni che servono solo a ribadire il potere e il privilegio di chi le firma: “È il modo migliore per liquidare l’importanza delle trasformazioni del linguaggio, delegittimandone il portato politico”.
Contro questi rischi, ci dice, “è importante sperimentare nuove strategie i cui effetti si estendano decisamente oltre al bacino specifico di coloro che hanno accesso a una certa tipologia di testi e contenuti e che dispongono degli strumenti politici e culturali che consentono loro di prendere parte alle sperimentazioni linguistiche, come nel caso dell’asterisco o dello schwa”. Per un superamento più generale del maschile sovraesteso – che per Zappino costituisce “l’indicatore linguistico del dominio politico degli uomini sulle donne e sulle minoranze di genere e sessuali, in tutti gli ambiti della società” –, potrebbe essere necessario fare passi ulteriori, “sperimentazioni della malleabilità del linguaggio che abbattano la necessità delle marcature di genere, favorendo al contempo la pronunciabilità e la comunicazione in modi inequivocabili, aggirando così i rischi degli esotismi”.
Pur continuando a utilizzare provocatoriamente il femminile sovraesteso e altri segni grafici, Zappino sta al momento scrivendo il suo prossimo libro ricorrendo a forme di espressione effettivamente neutre e universali, perifrasi funzionali ad aggirare la necessità delle desinenze e delle marcature di genere, che consentano a chiunque di leggere e di trovare il proprio posto nel discorso senza subire l’imposizione restrittiva di un genere grammaticale – “chiunque”, ad esempio, anziché “tutti” o “tuttə”. “Laddove l’abbia già sperimentato non è stato faticoso, ma è un esercizio altamente possibile, garantito dalla varietà delle lingue neolatine. Diverso è invece il discorso per i pronomi, che però possono essere trasformati, o inventati, senza rinunciare alla chiara pronunciabilità. Anche diventare comprensibili e leggibili è infatti una questione di acquisizione di potere. Basti pensare al pronome neutro ‘todes’ introdotto in una lingua neolatina affine all’italiano, lo spagnolo, oppure all’affermazione di ‘they’ in inglese, per rivolgersi non più solo a ‘loro’ come terza persona plurale, ma anche a una singola soggettività, le cui identificazioni di genere sono però plurali ed eccedono il binarismo”. Queste, secondo Zappino, sarebbero “sperimentazioni a lungo termine, in grado di trasformare effettivamente, nel tempo, i rapporti di potere insiti nel linguaggio”; ciò, tuttavia, non toglie che “abbiamo ancora bisogno delle marcature di genere (specialmente di quelle femminili) e delle loro sovversioni grafiche (asterischi, schwa…), sia per sottolineare la violenza dell’asimmetria di potere fra il genere maschile e quello femminile, sia per rivendicare il posto delle soggettività minoritarie, ed emergenti, all’interno di un conflitto che è politico”.