Trent’anni fa. Tutti i media sono focalizzati su Mani Pulite, uno tsunami che scardina la classe politica (e non solo) del nostro Paese. L’onda emotiva che attraversa l’Italia è travolgente, e l’uomo simbolo viene individuato nel giudice Antonio Di Pietro, sostanzialmente sconosciuto fino ad allora. Dunque si scatena la caccia a fotografie significative, emblematiche, intense, in una parola iconiche, che lo ritraggano per illuminare copertine e pagine di giornali non solo italiani ma internazionali: di Tangentopoli, infatti, si comincia a parlare in tutto il mondo. Ma queste foto, in giro, ancora scarseggiano.
E qui comincia una storia singolare a margine della ricerca spasmodica relativa alle immagini riguardanti il personaggio del momento.
C’è un fotoreporter – me medesimo – che in quegli anni documenta fatti, luoghi e persone legati all’attualità per un’editoria ancora in era pre-Internet.
Spesso mi capitava di trovarmi al Palazzo di Giustizia di Milano per riprese fotografiche in occasione di processi che facevano notizia, e quell’edificio mi è sempre sembrato – al suo interno – una città dentro la città, una sorta di distopia inquietante dove gli spazi sono sempre troppo grandi, le luci al neon troppo fredde e acide, il marmo troppo funebre, i rumori troppo innaturali. Tra carrelli ricolmi di faldoni spinti a fatica negli infiniti tetri corridoi e imputati ammanettati smistati nelle aule dei rispettivi processi.
Un giorno – mentre a tutto penso tranne che a Di Pietro – proprio là dentro accade l’inatteso, qualcosa che ancora ricordo tra sogno e realtà. Camminando a passo veloce (le distanze da coprire sono notevoli, in quell’enorme edificio), la mia coda dell’occhio aggancia in maniera quasi subliminale un bagliore giallo: nel regolare susseguirsi di porte – tutte uguali come la giustizia lo è per tutti – una, una sola, è rimasta socchiusa, e da quello spiraglio fuoriesce una luce accecante, calda, attraente, forse divina.
Si sa, se un fotografo non è curioso ha sbagliato mestiere, dunque provo a sbirciare all’interno dell’aula e resto di sasso. Di sasso e Di Pietro.
Dentro, più che la celebrazione di un processo, sembrerebbero in corso le riprese di Perry Mason, e un luogo di norma triste è invece uno splendente set cinematografico.
Sguscio dentro vestendomi d’invisibilità, scompaio dietro un cameraman addetto alle riprese, tiro fuori dalla borsa una macchina fotografica ma siamo in epoca di fotografia analogica: per realizzare foto a colori cromaticamente corrette in presenza della luce artificiale, usata in quel momento, occorreva una pellicola specifica, tarata per “luce tungsteno”. Nelle aule di giustizia, invece, normalmente si usava la pellicola daylight con la quale, questa volta, tutte le foto sarebbero risultate rosse. Sudori e patemi, stavo perdendo un’occasione irripetibile? In una tasca laterale della borsa trovo un rullino, uno solo (perché “non si sa mai”) del tipo giusto, e centellinandone i trentasei preziosissimi fotogrammi porto a casa una sequenza che, devo dire, mi ha dato qualche soddisfazione professionale.
Oggi si parla molto dei 30 dall’inizio di Tangentopoli. Io c’ero, e facevo il mio lavoro di fotoreporter. Tra le molte foto che realizzai allora, riguardo questa espressione di Di Pietro: forse riassume le molte domande che oggi, raffreddata l’onda emotiva, sono rimaste nell’aria pic.twitter.com/xFCNnZVsRx
— Leonello Bertolucci (@ilfototipo) February 17, 2022
Quelle foto andarono a ruba, tanta era in quel momento la sete di buone immagini riguardanti il giudice Di Pietro, e furono pubblicate su doppie pagine e copertine di settimanali in Italia e fuori, compresa la cover dell’americano Newsweek.
Oggi, rivedendole dopo trent’anni, hanno però un sapore diverso, si portano addosso il “senno di poi”, tante domande, tante considerazioni e tante notizie. Non tutte entusiasmanti come il clima che si respirava allora.
Quello spiraglio di luce calda che esce da una fessura, mentre attraverso i lividi spazi del Palazzo di Giustizia dove tutta la vicenda Mani Pulite si svolse, resta il mio ricordo visivamente più indelebile e, a leggerlo oggi, era anche il presagio di tutta la discutibile spettacolarizzazione che seguì.