È diventata la copertina dell’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia – suscitando pare, malumori – è stata lo scenario di innumerevoli film, è diventata a torto o a ragione una delle icone del Razionalismo: è la Villa di Malaparte a Capri. La dimora del noto intellettuale, giornalista, scrittore, fascistissimo e poi comunistissimo seguace del partito comunista cinese, cui la lasciò in eredità, fu un Antonio Pennacchi ante litteram: poiché l’autore di Canale Mussolini amava definirsi “fascio comunista”, venne chiamata “Casa come Me”.

Curzio Malaparte, eclettico, controverso intellettuale, odiato e amato dal Fascismo, volle caparbiamente una villa a Capri. Chiamò, salvo poi pentirsene, il più grande in quel momento tra gli Architetti, Adalberto Libera. La villa è da sempre un enigma: moltissime sono infatti le ricerche, gli approfondimenti su quanto ci fosse del Maestro del Razionalismo italiano e quanto del suo illustre capriccioso committente.

Questo interrogativo conferma un tema sempre attuale e noto dalla notte dei tempi, la conflittualità tra progettista e cliente. Quanto e quando può interferire chi commissiona un’opera, sia esso Papa, banchiere, mercante, intellettuale, nell’opera di un architetto? Sino a che punto la tecnica, il genio, la conoscenza di un progettista possono prevaricare o meglio indirizzare il cliente? Dal Rinascimento in poi, diverse sono le vicende di liti, incomprensioni, malumori, prevaricazioni da una e dall’altra parte, raccontate ne Le Vite del Vasari. C’è chi si piega supinamente pur di non perdere il cliente, e quindi la pagnotta, assecondandolo nelle sue follie e nel suo osceno gusto, chi si impone sino alla rottura. Viceversa la strada più corretta sarebbe mediare, interpretare, capire le esigenze del committente, sia esso pubblico o privato, e tradurre in un buon progetto, compatibile tra l’altro con la normativa.

La Villa di Curzio Malaparte tra l’altro ebbe non pochi problemi a essere realizzata e fu in un primo tempo osteggiata dagli ambientalisti dell’epoca poiché prevedeva sbancamenti realizzati abusivamente in una delle zone inviolabili di Capri, Capo Masullo, ma il nostro fece intervenire Ciano, noto frequentatore dell’isola con la moglie Edda. C’è un fitto epistolario precedente alla costruzione tra Malaparte e Libera dal quale si evince un rapporto conflittuale quasi insanabile (archivio Libera 24 aprile 1938), d’altra parte con due caratteri complessi uguali e distanti, non poteva che essere così. Il primo, Malaparte, l’eccesso, la teatralità; l’altro, Libera, il minimalismo, la razionalità. Entrambi però avvezzi al protagonismo e consci della propria grandezza…

Su quanto ci sia di Libera e quanto di Malaparte è un enigma quasi irrisolto, nonostante l’attenzione dei ricercatori e storici, Marida Talamona, Nicola Di Battista primi fra tutti. Certo è che questa villa – che non ha nulla, almeno per me, della solarità e della gioia di una villa al mare – è drammaticamente bella e inquietante come il romanzo La Pelle. Quella interminabile scalinata sembra portare agli inferi, alla “bella morte” di dannunziana memoria, del D’Annunzio suo amico e nemico, quella “bella morte” vagheggiata e ripresa recentemente nel bel libro di Gianni Oliva, anziché a un rigoglioso giardino.

Si respira un insieme di eros e thanatos, non a caso anche i film girati erano enigmatici come Il Disprezzo, tratto dal romanzo di Moravia dove i protagonisti vivono, si odiano e si amano sullo sfondo della Villa, poi muoiono. Moravia poi, insieme alla scrittrice Graziella Lonardo, istituì il Premio Malaparte, ancora oggi attivo, e uno dei rari momenti in cui la segretissima villa viene aperta per un aperitivo a pochi eletti, non più di 30 persone, dopo la cerimonia alla Certosa.

Pur essendo un elemento iconico di Capri non convive con essa: si può dire che è un’isola nell’isola. Il Sindaco Marino Lembo mi ha confidato che i rapporti con gli eredi di Malaparte, divenuti tali dopo interminabili cause, sono difficili se non inesistenti. Tutto è un mistero, un enigma, a cominciare dal suo proprietario, Kurt Erichsuckert: il vero nome di questo toscano di origini tedesche che lo mutò con ironica paronomasia in Malaparte, affascinato più dalle sconfitte che dai trionfi del Corso, e che voleva essere Dio, il padrone della Natura.

“Qui nessuna casa appariva. Io ero dunque il primo a costruire una casa in quella natura. E fu con timore reverente che mi accinsi alla fatica, aiutato non da architetti, o da ingegneri (se non per le questioni legali, per la forma legale), ma da un semplice capomastro, il migliore, il più onesto, il più intelligente, il più probo, fra quanti abbia mai conosciuti.” E così la sagoma, l’impronta si adattò alla forma del terreno, una pala, un remo la definì qualcuno. Come anche a me è successo recentemente per un mio progetto a San Gimignano, adattarmi a progettare un piccolo edificio seguendo una curva. Questo aspetto pare sia dovuto più a Malaparte che a Libera che alla fine, esausto dalle liti, definì questo incarico, una “villetta”.

La notorietà fu poi così estesa, complice quell’alone di mistero e maledizione che la circondava, che alla fine persino Libera in qualche modo se ne avvantaggiò, poiché a volte anche gli enigmi hanno un loro fascino e Bellezza.

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