Dalle carte dell'inchiesta dei pm di Roma, secondo i quali l'assassinio dell'ambasciatore, del Carabiniere Vittorio Iacovacci e dell'autista Mustapha Milambo è legato a un tentativo di sequestro a scopo di estorsione, emergono però dei particolari che fanno pensare a un'operazione organizzata in anticipo, con anche il ricorso a fonti interne vicine alla spedizione
L’ambasciatore Luca Attanasio, il Carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo sono stati uccisi un anno fa (era il 22 febbraio 2021) da un gruppo di banditi che ha chiesto loro 50mila dollari in cambio della libertà. È questa la conclusione a cui sono giunti, a un anno dall’agguato sulla strada tra Goma e Rutshuru, nella Repubblica Democratica del Congo, i procuratori romani guidati dall’aggiunto Sergio Colaiocco che pochi giorni fa hanno concluso le indagini nelle quali risultano indagati per omicidio colposo il vicedirettore del Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam) nella Repubblica Democratica del Congo, Rocco Leone, e il responsabile della sicurezza nell’area, Mansour Rwagaza. E proprio sulla ricostruzione di Rwagaza e di altri sopravvissuti all’agguato si basano le conclusioni contenute nelle carte prodotte da Piazzale Clodio: i sei banditi che hanno assaltato il convoglio del Pam, uccidendo per primo l’autista Milambo, hanno intimato alle vittime di dare loro immediatamente 50mila dollari altrimenti li avrebbero sequestrati. Non avevano ovviamente quella cifra con loro, così sono stati portati nella boscaglia dove è iniziato uno scontro a fuoco con i guardaparco nel quale hanno perso la vita sia Attanasio che Iacovacci. Ma le verità emerse da questa ricostruzione sono parziali. Perché non rispondono a due domande fondamentali per ricostruire l’intera vicenda: come facevano gli assalitori a sapere che il convoglio del Pam sarebbe passato da quella strada esattamente quel giorno? E chi li ha informati?
Non basta infatti dire, come si legge negli atti dell’inchiesta romana, che le omissioni e le manomissioni dei documenti attribuite a vario titolo ai membri dell’Agenzia Onu “contribuivano e comunque facilitavano le condotte poste in essere dal gruppo armato“. Perché quei criminali non potevano sapere del passaggio del convoglio senza una soffiata ‘interna’ ad ambienti informati sul programma della missione programmata per il 19-24 febbraio 2021. E gli unici a conoscerne i dettagli erano i membri del Pam, dell’ambasciata, del governo di Kinshasa e delle sue forze armate.
Che una soffiata ci sia effettivamente stata emerge dalle diverse testimonianze raccolte dagli investigatori in questo anno di indagini. La prima e più importante proviene da ambienti investigativi congolesi che, per questioni di sicurezza, Ilfattoquotidiano.it ha deciso di lasciare anonimi. Secondo quanto emerge, i banditi stazionavano nei pressi del villaggio di Kibumba, dove è avvenuto l’agguato il lunedì 22 febbraio, già dal sabato. Una versione che è confermata anche da un rapporto dell’Aise (i servizi segreti esterni italiani), tanto che in una fase iniziale gli investigatori locali avevano anche arrestato delle persone accusate di averli ospitati.
Questo dimostra però solo che i banditi avevano deciso di operare in quella zona, come spesso succede. Ma a far emergere una pianificazione più precisa dell’agguato arriva la testimonianza di alcuni dei guardaparco protagonisti del conflitto a fuoco con i sequestratori e nel quale hanno perso la vita Attanasio e Iacovacci. I quattro hanno dichiarato che “al loro arrivo presso la località Trois Antennes, dove sono stati uccisi gli italiani, intorno alle 7.30 del 22 febbraio 2021 (circa 3 ore prima dell’agguato, ndr), lì dove avevano incarico di procedere con i lavori relativi alla realizzazione di un traliccio dell’alta tensione, la popolazione locale si era indirizzata a loro evocando accadimenti che quel giorno non gli avrebbero consentito di procedere con i lavori che si accingevano a compiere”. In quel momento, i guardaparco “non avevano dato peso a queste espressioni ma, alla luce di quanto era accaduto, quelle frasi erano tornate alla mente dei guardaparco, assumendo un significato concreto“. È evidente, quindi, che la popolazione locale avesse colto già dalla prima mattina segnali che sarebbe successo qualcosa di grave. Resta da capire, però, perché, con i locali consapevoli della minaccia, il referente dei servizi interni, presente in ognuno dei villaggi nell’area, non fosse a conoscenza di ciò che stava accadendo o, eventualmente, non lo abbia segnalato. Ed è difficile trovare una risposta al perché, secondo la ricostruzione delle forze congolesi che emerge dalle carte, l’allarme a Kinshasa sia scattato già alle 9 della mattina, mentre l’agguato si è verificato più di un’ora dopo, alle 10.15. Una situazione che appare più grave se si tiene conto che solo la sera prima era stata lanciata un’allerta proprio su quell’area, provocando il ritiro di alcune forze di sicurezza, comprese quelle presenti a un check-point nelle immediate vicinanze del luogo dell’incidente, senza che Kinshasa venisse informata. Allerta ritirata appena il giorno successivo all’agguato.
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