Un documentarista e la sorella hanno ottenuto un permesso umanitario dopo aver trovato rifugio in Pakistan. "Non ci credevamo più più volte siamo stati sul punto di mollare tutto, rientrare a Kabul e aspettarci di tutto"
“Chiedo all’Italia di aiutarci a uscire da questo inferno, per noi non c’è futuro qui in Afghanistan, come giornalisti e come uomini”. L’appello al Fattoquotidiano.it di Jawad, giovane documentarista di Kabul, risale all’inizio del settembre scorso, all’indomani del ritorno al potere dei Talebani che ha spazzato via vent’anni di vano tentativo da parte dell’Occidente di ‘salvare’ l’Afghanistan. Ora, dopo una vera e propria odissea lunga cinque mesi e mezzo lui e sua sorella Yasmin (preferiamo utilizzare nomi di fantasia in quanto i due giovani sono richiedenti protezione internazionale e a rischio vita nel loro paese, dunque è opportuno non identificarli) sono finalmente arrivati in Italia con un permesso umanitario e non attraverso i ‘corridoi’ e la cosa, giuridicamente, cambia tutto e rappresenta un precedente importante.
Di lui e di un suo collega il Fattoquotidiano.it aveva raccolto il grido d’aiuto, ma mentre un suo collega giornalista era riuscito quasi subito a lasciare il Paese centrasiatico grazie al regista e produttore Khyber Khan, per Jawad e sua sorella Yasmin l’incubo si è concluso soltanto lunedì pomeriggio alle 13 con l’arrivo a Malpensa del volo partito da Islamabad via Doha: “Non ci credevamo più – tira un sospiro di sollievo Jawad -, più volte siamo stati sul punto di mollare tutto, rientrare a Kabul e aspettarci di tutto. L’attesa per il visto e la documentazione dall’Italia è stata infinita e logorante, mentre noi ci ascondevamo in Pakistan dove siamo stati costretti a fuggire per non finire nelle mani dei Talebani. Ho temuto soprattutto per la tenuta psicofisica di mia sorella, per i miei genitori che vivono a Kabul, preoccupati che non ce l’avremmo fatta. Ora dico grazie all’Italia e ai tanti che hanno contribuito alla nostra salvezza”.
Jawad, 25 anni e Yasmin, 23, ora sono in salvo a Milano e trascorsa la quarantena anti-Covid, obbligatoria per chi è in arrivo da Paesi di fascia E come il Pakistan, inizieranno la loro nuova vita in Italia. Afghanistan e Pakistan, il destino di fratello e sorella si è legato indissolubilmente ai due Paesi, tra fughe e nascondigli, visti prenotati e permessi ottenuti attraverso il pagamento del ‘pizzo’ che manda avanti la vita a quelle latitudini. Il tutto mentre in Italia gli avvocati dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e una libera professionista milanese, Elena Orlandini che li sta ospitando, si facevano in quattro per salvare la vita a Jawad e Yasmin.
A gennaio, quando tutto sembrava risolto, un inghippo a livello giuridico sembrava potesse far saltare il piano: “È stata durissima ma adesso la gioia per questo risultato è immensa. La causa a Tribunale di Roma non è ancora conclusa, ma ciò che contava era portare i due ragazzi in Italia”. A parlare è Nazzarena Zorzella, esperta legale di Asgi e alla base del successo giudiziario di cui avevamo raccontato gli intoppi a inizio anno: “Oltre ad aver salvato Jawad e Yasmin e dato loro la chance di un futuro migliore, c’è l’aspetto determinante del modo in cui siamo riusciti a portarli in Italia – aggiunge l’avvocato Zorzella -. Non attraverso i ‘corridoi’ o con dei visti particolari, studio, turismo e così via, ma con un visto umanitario individuale. Abbiamo dimostrato che queste persone erano a rischio incolumità e qui in Italia potranno godere di un supporto per il loro inserimento e l’integrazione. Ciò rappresenta un precedente importante che potrebbe modificare i destini di tanti migranti che si trovano in pericolo in varie parti del mondo facendo valere i loro diritti. È una grande vittoria e una gioia non indifferente”.
In effetti all’inizio di gennaio il Tribunale di Roma aveva emesso un’ordinanza che dava il via libera all’accoglienza dei due afghani con un visto umanitario, ma l’Avvocatura dello Stato si era opposta, bloccando l’iter e rendendo loro la vita un infermo senza fine. Jawad e Yasmin si stavano nascondendo in Pakistan e aspettavano solo il via libera per salire su un aereo e lasciarsi alle spalle la paura: “Avevamo fatto richiesta del visto pakistano, ma le cose da quelle parti non sempre funzionano – aggiunge Jawad che poi riassume la follia degli ultimi mesi del 2021 -. Non potevamo girare per Islamabad, se la polizia ci avesse fermato avremmo rischiato di essere deportati in Afghanistan e tutto sarebbe saltato. A settembre siamo stati contatti da Elena Orlandini e poi dagli avvocati di Asgi per avviare il percorso che ci imponeva di scappare dal paese e andare in Pakistan. Per farlo siamo dovuti scendere a sud e attraversare il confine al valico di Spin Boldak: era l’8 dicembre scorso. Da Quetta invece di riprendere verso nord, lungo il confine reso pericoloso da decine di check-point, siamo andati a Karachi (la città portuale più popolosa del Pakistan, ndr.) e poi ci siamo rimessi in viaggio verso la capitale Islamabad. Lì abbiamo atteso il nostro destino”.
Sono state settimane di tensione, fino a quando dall’Italia, anche attraverso la sua ambasciata a Islamabad, e dall’Asgi è arrivato il via libera. Mancava un ultimo documento e un’ultima prova per fratello e sorella: dovevano rientrare in Afghanistan per vedersi apposto un francobollo sul loro visto. L’unica alternativa era attraverso il pericolosissimo passo Torkham lungo la Grand Trunk road che collega la provincia afghana di Nangarhar (area dov’è diffusa la presenza dell’Isk, Islamic State of Khorasan,l’Isis in Afghanistan) e quella pakistana del Khyber Pakhtunkhwa: “Il 16 febbraio scorso – è il ricordo fresco del 25enne giornalista -, pare una vita ma in realtà è appena una settimana fa, una volta entrati sul fronte afghano della frontiera abbiamo ottenuto quel documento, ci siamo rimessi in fila in mezzo a centinaia di persone e sperato che i Talebani non ci fermassero. In fondo basta pagare, tutto ha un costo. Negli ultimi cinque mesi solo per i permessi e i transiti ho dovuto sborsare 2mila dollari. La corruzione dilaga sempre più, i Talebani sono troppo stupidi per capire chi va dove e perché, mentre il Pakistan sta succhiando il sangue degli afghani in fuga dall’Emirato. Per noi contava solo superare quell’ostacolo e ce l’abbiamo fatta”. Jawad e sua sorella sono in Italia da poche decine di ore e già hanno iniziato a fare pratica con la lingua, le abitudini e la cultura, mangiato pasta e goduto il piacere di un gelato. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la determinante ostinazione di Elena Orlandini, libera professionista con interessi nel settore del turismo.
Una cittadina che si è presa a cuore le sorti di persone che neppure conosceva e l’inizio di questa storia ha dell’incredibile: “In quei giorni infernali di agosto seguivo l’evoluzione della crisi afghana attraverso i reportage del network di Khyber Khan che raccontava in tempo reale cosa stava accadendo a Kabul. Vidi in diretta la troupe giornalistica aggredita dai Talebani a colpi d’arma da fuoco (quell’episodio Jawad lo raccontò al Fatto.it, ndr.). Immagini scioccanti – spiega la Orlandini -. Mi sono apparsi come degli eroi perché raccontavano sul posto il dramma di un popolo, incuranti del pericolo. In quel preciso momento ho capito che dovevo fare qualcosa anche se non sapevo da dove partire e come muovermi. All’inizio ho preso tutto quasi alla leggera, poi le cose sono andate avanti e l’ansia è andata crescendo man mano che entravo in simbiosi con i ragazzi. Non potevo più tirarmi indietro, deluderli, anche se il compito sembrava improbo. A farmi coraggio attorno a me le tante persone che hanno collaborato, da Asgi ovviamente che ha seguito la causa, a Pangea che ha aiutato i ragazzi in Pakistan. L’ultimo mese è stato terribile, scandito da notti insonni e l’ansia del fallimento. Ora sono con me, li aiuterò a ripartire in questa seconda vita e una volta ottenuto lo status di rifugiato chiederemo il ricongiungimento familiare”.