Gli indagati raccoglievano i soldi per conto del clan - attraverso un sistema di sovrafatturazioni sulle forniture - e organizzavano incontri tra gli imprenditori estorti e gli appartenenti alla stessa cosca: quando dovevano aprire una nuova attività, i colleghi si rivolgevano a loro affinché indicassero i referenti della camorra da contattare per "mettersi a posto". Uno dei due era già stato condannato in via definitiva, nel 2018, a cinque anni e cinque mesi di carcere
Raccoglievano i soldi delle estorsioni per conto del clan Belforte di Marcianise, nel Casertano, e organizzavano incontri tra gli imprenditori estorti e gli appartenenti alla stessa cosca. Per questo due fratelli imprenditori operanti nei settori del cemento e della ristorazione erano chiamati le “spie del pizzo“. A loro carico è scattato un sequestro di beni per oltre trenta milioni di euro tra automobili e case di lusso sulla Costiera amalfitana: le loro aziende sono state sottoposte ad amministrazione giudiziaria. I provvedimenti sono stati emessi dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ed eseguiti dalla Questura di Caserta in collaborazione con la Direzione investigativa antimafia (Dia) e la Guardia di finanza.
Era stata la Polizia, indagando sui due fratelli nel 2014, a scoprirne la vicinanza al clan Belforte. Uno dei due è stato poi condannato sia in primo grado che in appello, con sentenza diventata definitiva nel 2018, a cinque anni e cinque mesi di carcere. Sull’indagine si è poi innestato il filone investigativo di natura economico-finanziaria sul patrimonio degli imprenditori, a cui hanno preso parte la Dia e la Guardia di finanza. È emerso che i due erano diventati un punto di riferimento per il pagamento del pizzo, tanto per il clan quanto per gli altri imprenditori del territorio, che quando dovevano aprire una nuova attività si rivolgevano a loro affinché indicassero i referenti della camorra da contattare per “mettersi a posto“. I fratelli quindi organizzavano incontri tra estorsori e vittime e avevano inventato un sistema per raccogliere le tangenti dai colleghi: sovrafatturavano gli importi delle effettive forniture per consentire la creazione di “fondi neri” destinati al pagamento dei Belforte.
A uno dei due fratelli sono stati sequestrati beni per oltre trenta milioni: si tratta in particolare di tre società e 61 immobili tra le province di Caserta, Benevento, Salerno, L’Aquila e Parma (11 terreni, 18 abitazioni, due opifici industriali, 29 garage e magazzini e una multiproprietà in Costiera amalfitana), nonché 99 rapporti finanziari e dieci beni mobili (cinque macchine, tra cui una Ferrari ed una Porsche, tre imbarcazioni e 2 rimorchi). Per l’altro fratello è stata invece disposta l’amministrazione giudiziaria per il periodo di un anno delle sei aziende a lui riconducibili. Un modo per “risanare” le attività dalle infiltrazioni malavitose e farle rientrare nel mercato.