L'analisi della commissione di vigilanza sul settore, la Covip, prende in considerazione i tassi al netto dei prelievi del fisco e dei costi di gestione. Si tratta quindi di numeri abbastanza affidabili per valutare la convenienza di uno strumento. I Fondi chiusi, essendo enti senza scopo di lucro, hanno le spese più basse. Per Fondi aperti e Pip gli oneri a carico del sottoscrittore servono anche a remunerare la banca o l'assicurazione che li gestisce
Meglio aderire a un fondo pensione che lasciare il proprio Tfr parcheggiato in azienda. Cosa che, del resto, molti italiani hanno già fatto. Infatti secondo Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione, 8,8 milioni di lavoratori hanno scelto di garantirsi un’integrazione dell’assegno corrisposto dall’Inps. In totale, sono 212,6 miliardi di euro le somme investite in strumenti della previdenza complementare, una cifra lievitata di 14,7 miliardi rispetto al 2020. Come accennato, nel 2021, grazie al buon andamento dell’economia e delle Borse, i rendimenti corrisposti dalle compagnie hanno superato di molto la rivalutazione del Tfr, che ha registrato un modesto +1,9% annuo tra il 2012 e il 2021.
Ma andiamo con ordine. Nell’ultimo rapporto sulla previdenza complementare, Covip snocciola i dati sui fondi pensione: numero di adesioni, masse gestite e rendimenti. Il 2021 è stato un anno di grande salute per il settore, con rendimenti record. Al netto dei costi di gestione e delle tasse, la crescita del valore delle somme investite nei tre strumenti principali (Fondi chiusi, aperti e Pip) è notevole. In particolare, la performance migliore l’hanno registrata i Pip Unit linked, e cioè polizze vita collegate a fondi di investimento, con un aumento dell’11,1%. L’alto rendimento deriva dal fatto che si tratta di prodotti misti, che si collocano a metà strada tra gli strumenti assicurativi e finanziari, e sono perciò piuttosto rischiosi. Ottimo anche il rendimento registrato dai Fondi aperti, cresciuti del 6,4%. Questi strumenti sono gestiti da banche e assicurazioni e possono essere sottoscritti sia su base individuale che collettiva. In pratica, la scelta di investire in Fondi aperti può essere fatta anche dal contratto collettivo di una categoria di lavoratori o da accordi aziendali, e non soltanto dal singolo dipendente, come nel caso dei Pip. Infine, i Fondi pensione negoziali, o chiusi, hanno messo a segno un +4,9%. Sono fondi complementari senza scopo di lucro, ai quali i lavoratori aderiscono sulla base di accordi aziendali o contratti collettivi di categoria.
Tuttavia, quando si parla di pensioni è bene guardare cosa succede su un orizzonte temporale ampio e non limitarsi alla fotografia di un singolo anno. Per permettere di fare confronti di questo tipo, il rapporto Covip mette a disposizione anche i dati relativi agli ultimi dieci anni. Le cifre sono diverse, ma non di molto: da inizio 2012 a fine 2021, il rendimento medio annuo dei Fondi negoziali è stato del 4,1%, quello dei Fondi aperti del 4,6%, quello dei Pip Unit linked del 5%. Di contro, i lavoratori che hanno scelto di lasciare il Tfr in azienda hanno goduto di una rivalutazione dell’1,9% annuo.
I tassi calcolati da Covip, è bene sottolinearlo, sono al netto dei prelievi del fisco e dei costi di gestione. Pertanto sono numeri abbastanza affidabili per valutare la convenienza di uno strumento. Infatti, quando si parla di Fondi pensione una componente fondamentale da considerare sono i costi, e cioè tutte quelle spese necessarie alla gestione della posizione previdenziale. I costi possono incidere in modo significativo sull’importo dell’assegno ricevuto. In linea generale, va ricordato che i Fondi chiusi, essendo enti senza scopo di lucro, sono quelli con le spese più basse. I Fondi aperti e i Pip, invece, hanno costi più alti. Per questi prodotti, infatti, gli oneri a carico del sottoscrittore servono anche a remunerare la banca o l’assicurazione che li gestisce. Al fine di confrontare i diversi Fondi pensione, Covip pubblica ogni mese l’Indicatore sintetico di costo (Isc), una misura che esprime il costo annuo dei vari strumenti. L’Isc è calcolato sulla base dell’ipotesi di un versamento annuo di 2.500 euro e di un tasso di rendimento del 4%.
Inoltre, l’indice viene tarato a seconda della durata della partecipazione al Fondo (2, 5, 10 e 35 anni). Al crescere del periodo i costi diminuiscono perché vengono spalmati su un arco di tempo maggiore. Questa è una precisazione importante. Infatti, sul lungo periodo, piccole differenze nei costi possono avere un effetto anche molto grande sull’ammontare della prestazione. Come sottolinea Covip nell’ultima relazione pubblicata, relativa al 2020, “a parità di altre condizioni, un capitale di 100mila euro accumulato dopo un periodo di partecipazione di 35 anni su un prodotto con un ISC dell’1 per cento si ridurrebbe di circa il 18 per cento (scendendo a 82mila euro) nel caso l’ISC fosse stato del 2 per cento”.
Come detto, sul sito dell’autorità è possibile confrontare i diversi indici di costo aggiornati a gennaio 2022. Scorrendo le tabelle, si nota come in generale le spese per i Fondi negoziali siano in media più basse. I valori oscillano tra lo 0,37% degli strumenti bilanciati (nei quali la metà delle risorse è investita in bond e l’altra metà in azioni) e lo 0,59% dei prodotti con garanzia di restituzione del capitale o di una prestazione minima. I più cari, invece, sono i Pip che investono nel mercato azionario, con un Isc pari al 2,72%. Infine, per i Fondi pensione aperti il costo si situa in una forchetta compresa tra l’1,09% per quelli attivi nel settore delle obbligazioni, e l’1,71% per quelli che trattano azioni.
Per quanto riguarda il successo dei diversi strumenti, i Pip rappresentano il prodotto preferito, con 3,6 milioni di aderenti, in crescita del 2,9% sul 2020. In forte aumento i Fondi negoziali (3,5 milioni di iscritti, + 6%) e i Fondi aperti (1,7 milioni, +6,6%). Numeri importanti sono stati registrati anche dall’ammontare delle masse gestite. A crescere di più nel 2021 sono stati i Fondi aperti (+14,2%) con un attivo totale che è arrivato a quota 29 miliardi di euro, poi i Pip (+13%), con 44,1 miliardi amministrati, infine i Fondi negoziali (+8,2%) con 65,3 miliardi di euro. I prodotti della previdenza complementare risultano, quindi, molto appetibili. E tra i motivi del successo c’è sicuramente il fatto che i fondi pensione possono contare su una fiscalità agevolata. Innanzitutto, i contributi versati si possono dedurre dalla dichiarazione dei redditi, con un tetto di 5.164,57 euro all’anno. Poi, i rendimenti maturati durante la gestione subiscono un prelievo del 20% (12,5% per i titoli di Stato) contro l’aliquota ordinaria del 26%. Infine, la rendita o il capitale che vengono riscossi dal lavoratore sono tassati al 15%.
Uno dei modi principali, anche se non l’unico, con cui i lavoratori finanziano la propria pensione integrativa è il Tfr. Introdotto nel 1982, il Tfr, trattamento di fine rapporto, è la cosiddetta buonuscita, una somma che il datore deve dare al dipendente una volta cessato il rapporto di lavoro. L’importo del Tfr aumenta ogni anno di una cifra pari alla retribuzione lorda divisa per 13,5. Ma non solo. Il Tfr, infatti, viene rivalutato ogni anno dell’1,5% in misura fissa e di una percentuale pari al 75% della crescita dei prezzi. Al termine della carriera, dunque, la somma accumulata può essere anche molto cospicua. Nel 2005, lo Stato, ha deciso di fare del Tfr una stampella del traballante sistema pensionistico, per rimpolpare i sempre più esigui assegni pagati dall’Inps. Infatti, fino al 2006, la buonuscita maturata e non destinata alla previdenza complementare restava in azienda. Dal 2007, invece, la norma è cambiata. Al momento dell’assunzione, il lavoratore deve scegliere se aderire a un fondo pensione o lasciare il Tfr in azienda (se ha meno di 50 dipendenti) o al fondo di tesoreria Inps (se ha più di 50 addetti). In caso di mancata indicazione, la liquidazione confluisce automaticamente nel fondo complementare previsto dal contratto collettivo di lavoro.