Vorrei intervenire sull’intervista rilasciata il 12 febbraio al FattoQuotidiano.it dal magistrato Raffaele Guariniello sul tema della mancata giustizia per i morti da amianto. Non entro nel merito della riforma della legge 257/92 che non è approdata in commissione parlamentare a seguito della caduta del governo Conte II, e che comunque il ministro Roberto Cingolani, allertato proprio a seguito di questa intervista, si è impegnato a esaminare con attenzione. Vale la pena però ricordare che la riforma proposta da una commissione di esperti istituita dal precedente ministro dell’Ambiente Sergio Costa e coordinata proprio da Guariniello, oltre ai molti aspetti amministrativi e assicurativi, rivede l’interpretazione stessa del concetto di danno ambientale penalmente perseguibile come accreditato dalla odierna giurisprudenza, secondo cui sarebbe riconducibile soltanto a ciò che si consuma nell’immediatezza di una contaminazione in atto e non anche successivamente, nonostante sia prodotto a distanza di tempo dalla medesima.

Una contraddizione inaccettabile tra scienza e diritto. Ed è questo tema che intendo sviluppare in particolare, a proposito della raffica di sentenze di assoluzione emesse dalla IV sezione penale della Cassazione richiamate da Guariniello che hanno invertito piuttosto bruscamente il corso di una giurisprudenza che sembrava molto consolidata. Questa sezione penale ha stabilito che la valutazione dei singoli casi processuali, nella fattispecie i deceduti per tumore che sono stati indebitamente esposti ad amianto, debba fare riferimento alle conoscenze maggiormente condivise dalla comunità scientifica, accertando altresì i giudici l’indipendenza dei periti e dei consulenti tecnici delle parti che si esprimono nel merito. Ebbene, purtroppo le sentenze emesse dalla stessa IV sezione penale della Cassazione non rispettano entrambi questi requisiti.

Cominciò così. All’inizio degli anni Duemila, un cattedratico dell’università di Milano pubblicò su di una rivista “controllata” dalla medesima università un articolo in cui formalizzò la cosiddetta teoria della “trigger dose” o “del grilletto”, per cui la prima esposizione ad amianto subìta da un lavoratore sarebbe causalmente sufficiente a indurre l’insorgenza di un mesotelioma della pleura che costituisce una sorta di stigma del danno da amianto. Le esposizioni successive alla prima sarebbero di conseguenza ininfluenti sulla causazione della malattia. Quindi una sorta di peccato originale non emendabile da alcun ravvedimento dei datori di lavoro subentranti. Una teoria costruita su forzature e distorsioni della letteratura non ripresa da altri autori e contestata da autorevoli articoli scientifici di risposta.

Tuttavia questa teoria trovò ampia udienza nei tribunali, in primis lombardi, che, folgorati dall’autorevolezza del cattedratico nostrano, senza curarsi di valutare questa teoria alla luce della letteratura internazionale che decisamente la smentiva, la utilizzarono per archiviare notizie di reato e per assolvere imputati ormai rinviati a giudizio, senza preoccuparsi dei conflitti d’interesse che sussistevano tra questo cattedratico e l’Industria. Tanti.

Indebolitasi questa teoria nei successivi gradi di giudizio, il testimone, caduto di mano dal luminare, fu raccolto da altri seguaci suoi pari che raffinarono negli anni successivi una teoria scientifica in grado di imporre processualmente alla pubblica accusa l’esibizione di una prova impossibile, ovvero la cosiddetta “prova diabolica”. E’ assodato che una sostanza cancerogena induce un tumore dopo un lungo periodo, anche di decenni, dall’inizio dell’esposizione professionale o ambientale, definito tecnicamente “latenza” (late = nascondimento). E’ questo un lungo periodo di assoluto silenzio clinico, nel senso che nessun indicatore biologico o strumentale è in grado di captare un segnale di attività cancerogena in atto.

Ogni datore di lavoro che abbia omesso l’adozione delle misure di sicurezza necessarie per ridurre per quanto tecnicamente possibile il rischio di tumore diventa quindi corresponsabile dell’insorgenza della malattia, perché il rischio è funzione matematica della dose cumulativa, cioè della sommatoria di tutti i periodi di esposizione a diversa concentrazione di fibre di amianto, talché con l’aumentare della dose cumulativa aumenta il rischio di ammalarsi (e morire) di tumore. Ciascuno di questi periodi rappresenta un anello più o meno grande della catena causale e quindi compartecipa in diversa misura a determinare l’effetto, cioè la malattia. Aggiungendo o togliendo uno di questi anelli, la malattia comparirebbe con probabilità diversa ma soprattutto in tempi diversi, perché una maggiore esposizione accelera il processo della cancerogenesi e quindi anticipa l’insorgenza della malattia rendendosi responsabile di anni di vita persi.

Ma cosa vogliono ancora sapere di più i giudici della IV sezione della Cassazione? Chiedono di identificare “i segni fattuali” che nel periodo clinicamente silente della malattia sono in grado di discriminare il contributo causale dei diversi periodi temporali coperti dai diversi datori di lavoro. Se non si risponde a questa domanda processuale, dal momento che la responsabilità penale è personale, non si possono attribuire specifiche responsabilità causative personali, talché, se non si discrimina, non si può indentificare con precisione oggettiva alcun colpevole, perché non si può attribuire a ciascun datore di lavoro una responsabilità cumulativa. Chissà se i dodici assassini dell’Orient Express di Agatha Christie che inflissero in sequenza temporale 12 coltellate alla stessa vittima sarebbero stati assolti applicando questa logica.

Il problema è che questi “segni fattuali” invocati dalla IV sezione della Cassazione non sono materialmente identificabili, perché la scienza, pur conoscendo il meccanismo della cancerogenesi, non può retrospettivamente identificarli in concreto, semplicemente perché non esistono nei termini pretesi dal diritto penale, o meglio da questa sua iperrealistica interpretazione. Questo quesito “diabolico” è stato suggerito da una minoranza sparuta della comunità scientifica che si è messa al servizio dell’industria un po’ per passione e molto più perché le consulenze tecniche di parte fruttano centinaia di migliaia di euro, oltre a probabili benefit di altra natura. Di contro, quelle fornite al pubblico ministero sono retribuite poco più che simbolicamente e con notevole ritardo, nonché sottoposte addirittura a taglieggiamenti delle spese vive da parte dell’apparato amministrativo della giustizia, sebbene autorizzate da un pubblico ministero che quindi può avvalersi solo di consulenti “volontari”, appartenenti a una generazione di “anime belle” cresciuta sotto l’egida della riforma sanitaria istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, ma ormai in fisiologica estinzione.

Nonostante questa lotta impari, i consulenti tecnici della pubblica accusa, assumendo una letteratura scientifica internazionale consolidata che non ha pari per autorevolezza con quella citata a confutazione dalle difese, sono riusciti più recentemente a far valere in varie sedi processuali la tesi secondo cui – ammesso e non concesso che una indebita singola esposizione ad amianto possa da sola causare la malattia – le esposizioni successive alla prima, pur indifferenti rispetto all’esito, si rendono comunque responsabili di una anticipazione della morte, in quanto in grado di accelerare il processo della cancerogenesi. E per il diritto penale anticipare la morte è come provocarla.

Vero, è stata costretta di recente ad ammettere la difesa; ma ciò che è stato dimostrato sulla popolazione non può essere esteso automaticamente al singolo individuo – replica la stessa – anche se questo singolo individuo non è un soggetto che si potrebbe ammalare, quindi sottoposto alla legge della probabilità, bensì un soggetto già deceduto e che quindi questa probabilità l’ha attualizzata in corpore vili. Invero, di questa estensione – una volta che si escludano, come esige il metodo scientifico, spiegazioni alternative a quella ipotizzata – la scienza si avvale come regola aurea per validare tutti i percorsi diagnostici e terapeutici che hanno a che fare con la vita materiale delle singole persone.

Ma alla IV sezione penale ciò non basta: si vogliono riscontrare a ogni costo “i segni fattuali” delle singole vittime. Il diritto può anche avvalersi di decisioni basate su fondamenta diverse dalla scienza, ma è intollerabile che questo stesso diritto imponga alla scienza di rispondere a domande anti-scientifiche. Assumendo tesi in palese contrasto con la letteratura scientifica più accreditata, nonché sostenute da autori in noto conflitto di interessi, la IV sezione penale contraddice i suoi stessi postulati, paradossalmente posti a premessa delle proprie sentenze emesse in materia.

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