Cultura

Gabriele Lavia a FQMagazine: “La società malata di menzogna e “libera” solo nella follia: ecco la commedia pirandelliana che porto a teatro”

Il suo “Berretto a sonagli” di Pirandello sarà in scena dal primo marzo al Piccolo Teatro di Milano, per poi toccare diverse città italiane: "Il teatro è il luogo privilegiato dello sguardo. Il trono. La rappresentazione del ‘se stesso’. Dove lo sguardo non è quello dello spettatore. Al contrario, è il pubblico a essere guardato e rappresentato nella sua umanità. Spero solo che chi ha un ruolo nelle Commissioni statali dello Spettacolo dal vivo rifletta su questa grande forza"

di Simona Griggio

Il cinema come fenomeno popolare? “Oggi è morto. Vive solo sui red carpet e nei festival”. Gabriele Lavia, artista con una carriera totale, cinematografica, teatrale e televisiva, non ha dubbi. “Oggi le sale dei cinema sono quasi vuote. Un tempo noi giovani ci si andava per baciarsi, fare sesso e al contempo vedere capolavori. Anche tre volte al giorno marinando la scuola”. Alla soglia degli 80 anni lui, noto al grande pubblico per “Profondo Rosso”, “Inferno”, “La lupa”, “Sensi” ma anche per aver interpretato i più grandi ruoli del teatro, fa una constatazione d’esperienza: “Quella vita nelle sale oggi non c’è più. Si diceva che il cinema avrebbe ucciso il teatro. Invece il teatro è sopravvissuto persino alla pandemia”. Il suo “Berretto a sonagli” di Pirandello sarà in scena dal primo marzo al Piccolo Teatro di Milano, per poi toccare diverse città italiane.

Lavia, per il suo “Berretto a sonagli “di Pirandello riprende l’uso del dialetto siciliano…
E’ stato scritto da Pirandello in siciliano, e poi tradotto anche in italiano. Ma ho voluto usare le due versioni: ho fatto quello che chiamo “un pasticcio linguistico”. Il criterio? Alla borghesia affido la versione italiana, al popolo quella in siciliano. Magari Pirandello potrebbe inorridire. Ma conoscendolo, da non rigoroso, ne sarebbe contento. Anche se ormai non ha diritto di parola. Purtroppo.

Di cosa parla la commedia pirandelliana?
E’ un testo paradigmatico, rivoluzionario. E’ il primo esempio radicale di teatro italiano “espressionista”, amarissimo, comico e feroce. Vuole rappresentare una società malata di menzogna. L’uomo ha piena libertà solo nella follia. Protagonista è una moglie che si accorge di essere tradita dal marito. Non lo accetta. Se ne vuole andare. Ma la piccola società famigliare che la circonda non glielo permette. ‘Ti vuoi rovinare?’, le domandano. ‘No. Mi voglio liberare!’, risponde la donna. Persino Ciampa, l’altro marito, quello ‘becco’, è tacitamente consenziente. La famiglia la incalza: ‘Tu sei pazza’. La libertà della donna è considerata pazzia. Infatti, alla fine della storia, la povera Beatrice finirà in manicomio.

Qual è l’attualità di quest’opera del Nobel siciliano?
Più che di attualità parlerei di contemporaneità. Di unione e consonanza fra diverse epoche. Moliére come Pirandello, la tragedia greca come le opere di Shakespeare, Čechov come Ibsen: tutto è contemporaneo. Non bisogna confondere contemporaneo con attuale. Oggi non andiamo in America con le caravelle e non mandiamo la Gioconda al concorso di Miss Lazio. Però la scoperta delle Americhe e la bellezza della Monna Lisa fanno parte della nostra storia.

Il suo spettacolo “L’uomo del Fiore in Bocca” di Pirandello è diventato anche un film nel 2020…
Per realizzare “L’uomo dal fiore in bocca” ho preso stralci da diverse novelle di Pirandello. Lo spettacolo teatrale è poi diventato un film coprodotto da Rai Cinema. Tutto si svolge in una stazione ferroviaria in attesa di un treno che forse non arriverà mai. Due uomini conversano della vita, della morte, della famiglia. Di tutto. Elemento costante è la pioggia battente. Una curiosità? Non ho mai preso tanta pioggia come durante le riprese di quel film.

Lei viene anche dal cinema: con Dario Argento ha realizzato diversi successi horror. Cosa ricorda?
Mi piace scherzare sulle mie partecipazioni ai film di Dario Argento. Ho evitato tante multe per aver recitato in “Profondo rosso”. I vigili quando mi riconoscevano dai documenti chiudevano un occhio. Ma la cosa divertente è che con Dario, sempre molto ironico, capitava spesso che la proposta arrivasse per caso. Una volta, per esempio, per strada. Cammino sul marciapiede e lo incontro che sta uscendo dall’auto. Mi chiede di fare una parte nel film “Inferno” con Eleonora Giorgi. ‘Mi fai ‘sta cosa?’, dice. ‘Entri, ti ammazzano e hai finito!’. Accetto. In effetti in tre ore si gira il tutto. Entro ed esco. Con un coltello piantato nella gola.

Cosa ricorda invece della sua partecipazione al film “La leggenda del pianista sull’oceano”?
Nel film di Giuseppe Tornatore, un vecchio amico e un grande artista, ho girato solo una scena. In un giorno di riposo dal teatro. Ho capito subito che si trattava di un set molto importante. Tim Roth, il protagonista, è stato per tutto il tempo seduto al pianoforte unicamente per darmi lo sguardo giusto. Un grande professionista e un grande essere umano.

Lei è anche un lettore di fiabe. Porta in giro uno spettacolo in cui legge le favole di Oscar Wilde…
Nelle sue favole Wilde racconta in un certo modo la sua vita. La sua storia personale viene trasfigurata nei suoi racconti. Persino il “Ritratto di Dorian Grey”, in qualche modo, racconta la storia del poeta. Come una confessione.

Il film a cui è più legato?
“Il principe di Homburg”, il primo film da regista. Che ha vinto il premio Nastro d’Argento nel 1983. Non avevamo i soldi neppure per la pellicola. E avevo persino chiesto 200 cavalli per girare la scena della carica del Principe.

Sono arrivati i 200 cavalli?
No, infatti. Ne arrivarono solo 20. Durante le riprese è accaduto di tutto. Ricordo solo una cosa. Non avevamo fondi. Gli attori scappavano. Ma è stata la mia prima opera da regista di cinema. E la mia opera migliore.

Cosa significa fare regia?
E’ molto diverso che recitare. Ho avuto la fortuna, nel teatro, di lavorare con Giorgio Strehler. A 18 anni avevo visto tutti i suoi spettacoli. Spesso mi diceva: ‘quando farai il regista…’ e io rispondevo: ‘ma io non lo farò’. E lui: ‘mi dispiace per te ma tu farai il regista. Vedo su di te la nube nera della regia, la maledizione’. Ecco: il regista fa solo lo spettacolo. E’ un incidente all’interno del teatro. Ma è solo il rapporto vivo fra attore e spettatore, che si può instaurare o meno, a far nascere il fuoco del teatro.

La pandemia ha modificato questo rapporto?
Ha migliorato la qualità dello spettatore. Quando si sono riaperti i teatri gli spettatori avevano la coscienza di tornare in un luogo importante. Il cinema, invece, come fenomeno popolare è morto. Perché tecnicamente è stato superato. E infatti le sale sono sempre più piccole. Sopravvive come arte cinematografica solo sul red carpet e nei festival. Quando ero ragazzo le sale ospitavano migliaia di persone. Persino il film La tunica di Henry Koster, il più brutto film mai esistito, del 1953, faceva il pieno e costruirono una sala di 2.500 posti per poterlo proiettare a Torino. Un tempo noi ragazzi andavano al cinema per baciarci, fare un po’ di sesso e vedere anche il film. Si andava anche di mattina marinando la scuola.

Perché il teatro non muore?
Perché raccontarsi con il corpo significa provocare nello spettatore questa piccola constatazione: ‘ecco, quell’uomo che si muove sulla scena è come me’. Oppure: ‘non è come me’. Il teatro è all’inizio di tutto. Il vecchio cacciatore che ha ucciso il bisonte racconta agli altri della sua impresa. Gli altri si vedono rappresentati. Sarà così per sempre. Dai primitivi a oggi. Lei sa cosa vuol dire la parola teatro?

Mi aiuta a ricordare?
E’ il luogo privilegiato dello sguardo. Il trono. La rappresentazione del ‘se stesso’. Dove lo sguardo non è quello dello spettatore. Al contrario, è il pubblico a essere guardato e rappresentato nella sua umanità. Spero solo che chi ha un ruolo nelle Commissioni statali dello Spettacolo dal vivo rifletta su questa grande forza del teatro e lo aiuti come si deve.

FOTO: Filippo Milani

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